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Cultura

L’ULTIMO BEETHOVEN

LIVIO GHIRINGHELLI - 23/12/2021

beethovenLe ultime sonate per pianoforte di Beethoven vennero composte in parallelo con la Nona e la Missa sollemnis, quindi coeve con i capolavori orchestrali di un periodo travagliato per motivi di salute, economici e di preoccupazioni familiari (accumulazione di debiti, retta del Collegio per il nipote Karl, spese legali, scarsi guadagni), ma contrassegnato da un eccezionale fervore creativo. Le Sonate op.109 nr.30 in Mi maggiore, op.110 nr. 31 in La bemolle maggiore ed op. nr.32 in Do minore sono da attribuire agli anni tra il 1820 e il 1822 e si caratterizzano per la differente fisionomia strutturale e dialettica sviluppata attraverso una rivoluzionaria disposizione dei brani (non più i tre movimenti tradizionali nell’op. 109, bensì due movimenti mossi, brevi e concisi, conclusi dal Finale concepito come tema con variazioni; la struttura formale è condizionata dai sentimenti nell’op. 110 ; due soli movimenti nell’op. 111, ritenuta il testamento spirituale dell’autore, specie per le variazioni in atmosfera sognante del secondo tempo, visionario e trascendente, esempio perfetto di tesi e antitesi, non più dimensioni, né colori, né tempi). La libertà di concezione ed esecuzione disorientò all’inizio il pubblico, ma anche in prosieguo di tempo.

L’op.109 fa seguire a un Vivace introduttivo preschumanniano un Prestissimo indipendente per materiale tematico, dinamica e ritmo. L’Andante cantabile è il centro di gravità della sonata, primo esempio dell’importanza dell’arte della variazione tipica delle ultime opere di Beethoven. La più significativa delle variazioni è da considerare la sesta, ritenuta dal Rolland un’assoluta fantasticheria dello spirito con alternanza continua di turbamenti, nostalgie, sospiri ed impeti tempestosi. La sonata è tra le meno affaticate dal pensiero.

L’op.110, pubblicata nell’agosto del 1822, è tra le creazioni più profondamente soggettive di Beethoven : nella sua composta orditura sono i sentimenti a condizionare la struttura formale. Rispetto all’impegno immane della 106, l’Hammkerklavier, qui si nota una disinvolta semplicità, l’equilibrio rarefatto di alcune parti polifoniche, mentre sobrie sono le relazioni armoniche. Da rilevare l’estrema libertà della forma, l’adozione di un procedimento ciclico (coi temi che nascono da un unico nucleo), la scelta del recitativo drammatico e la presenza di parti fugate. Il Moderato cantabile moto espressivo d’apertura di trasparente purezza è seguito da un Allegro in forma di Scherzo energico e agitato. Il lungo Finale, scomponibile in quattro episodi, registra il centro espressivo della composizione (per D’Indy la più straziante manifestazione di dolore in Beethoven). Il Recitativo, in cui si avverte l’ombra del canto, culmina con affanno su una nota ripetuta quindici volte, di allucinante provocazione. L’ Arioso dolente si fa vera e propria espressione vocale. La Fuga di chiusura con la limpida euritmia polifonica si ispira a un ottimismo sostenuto, a trionfare sull’orrore delle passioni. Nella sonata sono il sentimento e il patetico a prevalere.

L’op. 111, abbozzata nel 1819 e completata il 13 gennaio 1822, presenta nel primo dei due movimenti la sofferenza e il dolore degli esseri umani impegnati sulla via della metamorfosi, nella seconda parte il sentimento del Nirvana a diluire il non-essere. Il riscatto è sancito dal tema luminoso. Il Maestoso iniziale si presenta in forma sonata, con prodigiosa concisione e linearità. Un rustico e fitto episodio contrappuntistico costituisce l’ossatura del movimento. L’Arietta ha il coraggioso intento di descrivere una realtà sovrannaturale. Cinque variazioni senza soluzione di continuità si affrancano da ogni vincolo. La struttura armonica appare primitiva. Il tema si frantuma sotto l’azione disgregatrice della componente ritmica. Per Casella il tema si riassume in dolcezza, quiete, felicità sovraterrestre. Dedicata in origine ad Antonia Brentano, la sonata fu poi dedicata all’Arciduca Rodolfo.

La terza maniera beethoveniana contiene tutto ciò che è visionario e trascendente. Il Finale è un addio, un addio per sempre, così dolce che gli occhi si riempiono di lacrime (Thomas Mann, Cap. VIII del Doktor Faustus)).

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