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Cultura

L’ANTONIO DI TUTTI

RENATA BALLERIO - 14/01/2022

antonioQuest’anno niente falò di sant’Antonio. È solo una notiziola locale? Risposta decisamente negativa. La festosa partecipazione a questa sagra popolare fatta di sapori antichi, i pesitt, i maialini di formaggio, le frittelle e le colorate bancarelle ha da anni il suo cuore nel grande falò in piazza della Motta. La festa è – documenti alla mano – già citata nel 1572 e rappresenta indiscutibilmente la magica potenza di un rito collettivo, identitario di una comunità, come tutti i riti. Una sorta di orologio sociale, come pare ricordarcelo l’etimologia di rito che è la stessa di ritmo. E se non potremo guardare il fuoco propiziatorio, nulla ci vieta di inseguire le faville dei ricordi e di qualche riflessioncella.

La storia di Antonio Abate è nota ai più ma offre sempre spunti di saggezza culturale: il che significa non dare mai nulla per scontato. Un articolo di qualche anno fa del Touring italiano segnalava che la Lombardia è una delle regioni italiane in cui si festeggia di più sant’Antonio. Se ci limitiamo alla provincia di Varese possiamo pensare a Viggiù, Mustonate, Saronno, Besozzo e a molti altri paesi. Ma forse dobbiamo pensare anche che il santo dalla barba bianca era egiziano e visse da eremita nella Tebaide, dove ora grosso modo c’è Luxor, sul Nilo, a 800 chilometri dal Mediterraneo. La sua presenza con sagre in tutta Italia, dalla Lombardia all’Abruzzo, dalla Liguria alla Sardegna ci ha fatto dimenticare la sua origine, che in termini moderni e spesso inutilmente classificatori sarebbe quella di un santo extra comunitario…

Ammesso che questa considerazione possa suonare una forzatura, Antonio, nato da una famiglia benestante, come ci ricorda il nome patrizio di origine romana, dovrebbe, però, insegnarci o testimoniarci che non possiamo mai dimenticare il valore delle origini. Ma da lui, o meglio dalle sagre a lui dedicate, dovremmo imparare tante altre cosucce, quali il sincretismo culturale, cioè la feconda unione e fusione di aspetti culturali diversi, che – strano a dirsi- rafforzano l’identità.

I falò, riti di purificazione, sono stati ereditati da feste romane di gennaio, le ferie sementine, ad esempio. E non fu difficile per la religiosità popolare dei contadini del Medioevo appropriarsi del rito di buon auspicio per le coltivazioni, in quel momento dell’anno in cui le giornate “si allungano” e si avviano verso la luce primaverile. E che dire dei simboli con cui viene rappresentato, sia nei santini della chiesa sia in grandi opere pittoriche, come quella di Pisanello: vera enciclopedia culturale. Un esempio per tutti: il porcellino. Forse è una libertà iconografica alimentata da molte leggende… il maialino guarito dall’eremita Antonio? Il porcellino che scappò all’inferno facendo disperare i diavoli che dovettero chiedere aiuto ad Antonio? È certo che il maiale in molte culture ha un significato ambivalente: significa abbondanza ma anche una serie di vere o presunte negatività, dalla lussuria alla sporcizia.

Anzi fu spesso simbolo del rapporto tra terra e inferi. E allora perché mai Pisanello preferisce rappresentare l’eremita egiziano con un cinghiale? La storia di Antonio è davvero un mosaico di scoperte. Si dice che morì ultra centenario e il suo sepolcro fu segreto fino alla scoperta nel 561… le reliquie cominciarono una lunga migrazione: Alessandria, Costantinopoli fino in Francia nell’XI secolo, dove il suo culto si fuse con un rito celtico, caratterizzato dalla caccia all’immortale cinghiale bianco.

Certo che inseguire, anche solo con la mente, le faville del falò ci sta portando molto lontano. Ci può portare alle visioni del pittore Bosch o al surrealismo di Salvator Dalì, che dedicarono immagini potenti al taumaturgo e alle sue tentazioni. Perché, dunque, non leggere la tentazione di Sant’Antonio di Flaubert? Per alcuni un capolavoro, per altri un testo difficile ma importante per amare in modo diverso un eremita, o forse un uomo che ci aiuta a combattere, come lui fece, la solitudine del deserto.

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