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Parole

LESSICO FAMILIARE

MARGHERITA GIROMINI - 04/02/2022

bulliOgni qualvolta succedono fatti violenti i cui protagonisti sono ragazzi o giovani adulti mi viene da chiedermi dov’era, dov’è, la loro famiglia.

Questa domanda mi si è ripresentata di recente: quando ho sentito e letto dei fatti di cronaca di Venturina in Toscana, dell’aggressione da parte di due ragazzine di quindici anni che si sono accanite contro un compagno più giovane riempiendolo di sputi e di insulti il principale dei quali, quello scatenante, era il disprezzo per il suo essere ebreo.

Come potevano le suddette ragazzine essere al corrente dell’appartenenza all’ebraismo di un ragazzino che non è né loro amico né compagno di classe?

Intanto va detto che non avrebbero potuto riconoscerlo da qualche “segno particolare” dato che chi è ebreo e non vive in un’area connotata dalla presenza di comunità di ebrei praticanti, non indossa segni riconoscibili delle proprie usanze religiose. Come invece avviene per chi si può distinguere per il colore della pelle, o per un difetto fisico, o per una particolare caratteristica riconducibile a una disabilità.

Le forme di crudele divertimento a cui assistiamo da quando ci sono i social, in grado di replicare all’infinito foto e video delle vittime, affondano le radici nell’atavico atteggiamento sociale di rifiuto della diversità. Non mi è chiaro allora in base a quali elementi le ragazze, che per semplificare chiamo bulle, hanno individuato il ragazzino da colpire. Dubito che si tratti di antisemitismo consapevole. A scuola si sarà parlato, con minore o maggiore approfondimento data l’età che le colloca tra la scuola media e il primo anno delle superiori, della Shoah e della Giornata della Memoria.

Ma appare poco probabile che le due quindicenni abbiano avuto il tempo di maturare l’adesione ad ideologie naziste o nazifasciste. Sorge il dubbio che le loro frasi possano essere state udite nei discorsi del quotidiano familiare: definire l’uno o un altro come zingaro, o ebreo, o barbone, o “negro”, con l’aggiunta dei peggiori epiteti (quelli ripetibili vanno da “sporco” a “miserabile”) conduce a un linguaggio che divide il mondo in “noi” – che siamo i giusti – e “gli altri”, che sono rifiuti sociali o persone da bruciare nei forni.

Vorrei sbagliarmi ma quando ragazzi così giovani si abbandonano ad atti violenti, a esplosioni verbali, a bullismo e a stalking, è doveroso interrogarsi sul ruolo della famiglia nella costruzione del pensiero e degli atteggiamenti da attivare con il prossimo. Perché è assodato che sono l’aria che si respira dalla nascita e le parole con cui ci si relaziona tra membri della famiglia, i gesti e il non detto, l’apertura o la chiusura verso gli altri, che creano la base dell’educazione dentro cui può svolgersi una corretta crescita.

Per questo mi chiedo se i comportamenti violenti, verbali o materiali, siano davvero da attribuirsi sempre e solo alle cattive compagnie, al cosiddetto branco, alla vita nei gruppi sia scolastici sia extrascolastici e non anche alla famiglia. Mi ha colpito il fatto che la madre di una delle due abbia detto (frase presto rimossa dai testi giornalistici online) che le ragazze erano state provocate. Come se in un litigio tra ragazzi fosse normale augurarsi di finire a bruciare nei forni.

Ma per fortuna ho una buona notizia con cui concludere le mie dolenti constatazioni. La madre di un bullo di Fossano (Cuneo) ha riconosciuto il figlio dodicenne tra gli autori degli atti vandalici in centro paese e senza esitare lo ha accompagnato in Comune a chiedere scusa e a promettere che avrebbe ripagato tutto. Alla stampa ha confidato che quando si è accorta che il figlio era tra i responsabili si è “vergognata tantissimo: mio figlio questa lezione se la ricorderà per la vita. Non ci fosse stato il Covid gli avrei fatto fare anche del volontariato!”.

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