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Società

C’ERA UNA LUNA

GIOIA GENTILE - 18/03/2022

lunaC’è un ricordo che in questi giorni mi si ripresenta sempre più spesso: mio cugino, dieci anni circa, le braccia conserte sul tavolo della sala, il mento poggiato sulle braccia, gli occhi sgranati, che si rivolge a mia madre: “Zia, racconta ancora le tue avventure di guerra”. Erano gli anni prima della televisione, quando le serate si trascorrevano ascoltando le storie degli adulti, storie vere per lo più, a volte semplificate per non spaventare i bambini, a volte arricchite per renderle più spettacolari.

Mia madre era un’abile affabulatrice, sapeva trasformare le tragedie in avventure, ma ciò che raccontava l’aveva effettivamente vissuto.

Quella sera eravamo tutti e due incantati, io e mio cugino, perché ci aveva raccontato di quando si era trovata sulla via Emilia sotto un bombardamento. Con sua madre e le sue due sorelle stava lasciando la Romagna – dove si erano rifugiate nel ‘43 dopo la fuga dall’Istria – per raggiungere Varese. Si spostavano a piedi o con mezzi di fortuna. Avevano trovato rifugio per la notte sotto il portico di una casa abbandonata, ma ad un certo punto, spaventate da un’ombra che avevano visto aggirarsi lì attorno, decisero di rimettersi in cammino. “C’era una luuuuna…!” In quella “u”, che mia madre allungava lasciando in sospeso la frase, noi vedevamo la luce bianca e impietosa che poteva renderle un facile bersaglio, e nel suono luttuoso già presentivamo il pericolo. Infatti sulla stessa via stava viaggiando un convoglio militare che, poco dopo, fu preso di mira da un bombardamento aereo. “Ci nascondevamo nei fossi ogni volta che sentivamo gli aerei tornare e riprendevamo la strada quando si allontanavano”. Il suo ricordo ci giungeva filtrato dalla distanza del tempo e dai vuoti che la memoria, per proteggersi, inevitabilmente crea; e noi ascoltavamo incantati, rassicurati dal lieto fine evidente – dato che lei era lì a raccontarcelo – e con quel brivido che induce i bambini ad appassionarsi alle storie di paura.

La scena mi è riaffiorata, vivida, proprio ora, perché forse per la prima volta, di fronte alle immagini degli Ucraini in fuga, ho rivisto l’esperienza di mia madre senza l’alone di avventura che mi suggerivano i suoi racconti e ho capito davvero che cosa ha voluto dire, per lei e per la sua famiglia, essere profughi.

Il dolore per aver perso la loro terra l’ho sempre avvertito, ma non ero riuscita a sentire fino in fondo lo smarrimento di chi, per salvarsi la vita, è costretto a metterla in una valigia e a partire, a volte senza una meta. L’ho vissuto adesso, negli occhi di quelle persone che la TV ci mostra, nelle lacrime che con pudore si asciugano, voltandosi quel tanto che basta per non perdere la dignità.

Mi sono sentita un po’ in colpa per esserci arrivata così tardi, ma poi ho pensato che è stato il modo in cui mia madre raccontava a tenermi lontana dagli aspetti più dolorosi e che è proprio così che si dovrebbe parlare della guerra ai bambini: rendendoli consapevoli del pericolo e, al tempo stesso, rassicurandoli sul fatto che se ne può uscire indenni, come i supereroi che tanto amano, come ne “La vita è bella” di Benigni.

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