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Opinioni

IL COSTO DELLA LIBERTÀ

VINCENZO CIARAFFA - 12/05/2012

Nel suo messaggio alle Forze Armate in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, il Ministro della Difesa Giampaolo di Paola ha dichiarato, tra l’altro, che bisogna procedere a “una profonda revisione dello strumento militare”. Purtroppo, ogni volta che qualche politico (Di Paola, poi, è stato anche Capo di Stato Maggiore della Difesa…) inizia a parlare di ristrutturazione o revisione delle Forze Armate questo si traduce in un ulteriore passo avanti verso lo smantellamento del nostro strumento di difesa o nella riproposizione del gioco delle tre carte.

In questo gioco, poi, Di Paola ha avuto illustri predecessori. Uno di questi fu il Generale e Sottosegretario alla Guerra, dal 1936 al 1939, Alfredo Pariani il quale, approssimandosi “L’ora segnata dal destino[…] l’ora delle decisioni irrevocabili” di Mussolini, studiò anche lui una revisione del Regio Esercito che viene ricordata col suo nome e fondava sull’esigenza di dover creare nuove Divisioni da gettare nella fornace della Seconda Guerra Mondiale. Una persona mediamente raziocinante penserebbe che creare altre Unità militari significhi accrescere il numero dei soldati e degli armamenti ma quella di Pariani seguì un’altra logica. Egli, infatti, si limitò a trasformare le Divisioni esistenti da ternarie (su tre Reggimenti) a binarie (su due Reggimenti), sicché da ogni due Divisioni ne ricavò una terza: alla fine le Divisioni del Regio Esercito aumentarono per davvero ma i soldati e l’armamento erano rimasti gli stessi di prima!

Finita la guerra guerreggiata che, ovviamente, perdemmo, venne Yalta e la “guerra fredda”, e prefigurandosi nuovi equilibri geostrategici gli americani agevolarono – si fa per dire – la normalizzazione dell’Italia al fine di poterne fare il perno di difesa dell’Europa meridionale in caso di attacco proveniente da Est. Fu così che col permesso della M.M.I.A. (Military Mission Italian Army), l’Italia poté mettere insieme sei raffazzonati Gruppi di Combattimento dai quali sarebbe nato l’Esercito Italiano del dopoguerra.

Era, dunque scontato che nel 1949, gli americani sponsorizzassero l’entrata del nostro Paese nella North Atlantic Treaty Organization, meglio conosciuta come NATO, per potervi installare basi aeree e missilistiche: da quel momento le nostre Forze Armate si rincantucciarono sotto il loro ombrello atomico. Il far parte di un’alleanza militare in pratica imbattibile per le risorse e la tecnologia che metteva in campo, non stimolò la preparazione e la qualità del nostro modello di difesa e dei suoi vertici perché, in caso di minaccia militare contro il nostro Paese, il potente alleato d’oltre Atlantico aveva l’interesse e la capacità d’intervenire rapidamente per tirarci fuori dai guai. Poi, venne la repentina, imprevista (da tutti) caduta del muro di Berlino, l’implosione del comunismo, la frantumazione del Patto di Varsavia e il conseguente, progressivo disinteresse statunitense per il teatro europeo e, quindi, anche per l’Italia. A quel punto, i vertici militari e la politica italiani furono costretti a uscire dal letargo intellettuale/operativo e realizzare che l’unico modo per rimanere, in qualche modo, agganciati al carro USA era di supportarli nella loro non sempre savia politica militare.

Per fare questo avevamo bisogno di un dispositivo militare che non fosse più “da guarnigione” ma agile, dinamico, e impiegabile anche all’estero. Tutto ciò, però, non si poteva realizzare con militari di leva che in cinque, sei mesi di reale servizio imparavano a malapena a sparare col fucile. Allora avvenne che, in quattro e quattr’otto, fosse varata una legge che sospendeva (in pratica aboliva) la leva obbligatoria e istituiva l’esercito professionale. La specifica legge istitutiva ottenne alla Camera 12 voti contrari, 21 astenuti e 396 voti a favore e, cosa strana, i più entusiasti a votarla furono gli ex comunisti, coloro che fino a pochi anni prima volevano l’uscita dell’Italia dalla NATO e la smilitarizzazione delle Forze Armate. Anzi, fu proprio un ex comunista, Pietro Folena, che in Parlamento chiarì perfettamente lo spirito con il quale stava nascendo l’esercito dei volontari: “In questo strumento migliaia di giovani volontari potranno trovare nuove opportunità di lavoro e di formazione”. Forse l’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa avrebbe dovuto spiegare all’entusiasta Folena che l’ufficio di collocamento è una cosa, le Forze Armate sono un’altra. Come pure avrebbe dovuto spiegargli che mantenere un esercito di mestiere con l’esclusivo fine di poterlo impiegare nelle cosiddette missioni umanitarie all’estero ha dei costi che il nostro Paese non può permettersi come, ormai, non se li possono permettere neppure gli americani le cui missioni militari, però, sono molto meno “umanitarie” delle nostre. Riprova ne è il fatto che, il 2 febbraio scorso, il Segretario alla Difesa USA, Leon Panetta, ha dichiarato che i militari statunitensi operanti in Afghanistan “Cercheranno di porre fine alle loro attività di combattimento per concentrarsi su quelle di addestramento e assistenza delle forze afghane entro il 2013”. Come dire che gli USA, pur riducendo l’impegno militare diretto, si attrezzeranno per tenere comunque un piede in Afghanistan, e per una ragione che vedremo appresso. Noi che non siamo né ricchi, né potenti come gli americani, dall’Afghanistan ce ne andremo, invece, nel 2014, almeno questo è ciò che ha detto Monti durante la conferenza stampa seguita all’incontro col Segretario Generale della NATO Rasmussen. Nella circostanza Monti ha altresì assicurato che, anche ritirando i militari, il nostro Paese continuerà a garantire risorse e uomini per l’addestramento delle forze di sicurezza afghane.

L’economista Monti, prontissimo a massacrare gli italiani in nome della crisi economica, ha espresso tali generosi proponimenti perché, poverino, non ha capito qual è la partita che si sta giocando in quell’area. Nel dicembre 2001 Elizabeth Jones, la principale collaboratrice dell’allora Segretario di Stato americano fece un’inquietante dichiarazione pubblica a proposito dell’intervento militare del suo Paese in Afghanistan: “Quando questo conflitto avrà termine, non ce ne andremo dall’Asia Centrale”. In questi undici anni, però, la Cina, che ha una mostruosa fame di energia, non se n’è stata a guardare e si è attrezzata per contrastare (per adesso pacificamente…) gli americani in quell’area che è l’antemurale terrestre del Golfo Persico, zona vitale per i rifornimenti di petrolio. Per arrivare nel Golfo, però, le navi cinesi devono affrontare sette giorni di navigazione passando per lo stretto di Malacca, oltre che dover superare – eventualmente – lo sbarramento della Marina da guerra americana. Per questa ragione la Cina ha finanziato la costruzione del porto di Gward, nel Pakistan, che si trova all’imboccatura del Golfo Persico ed è idoneo per l’attracco delle sue super petroliere. E non vi possono essere dubbi sulle intenzioni della Cina di penetrare in quell’area perché il porto di Gward, inaugurato nel 2007, è gestito da una compagnia di Singapore, come dire direttamente dal governo cinese. La Cina non baderà a spese pur d’insediarsi nel Golfo Persico perché ne va del suo sviluppo economico e di un PIL che viaggia a due cifre, perciò, oltre all’opzione marittima, se n’è riservata anche una terrestre. Infatti, essa si è “offerta” di costruire anche la Karakorum Higway, una strada che dai suoi confini porterebbe direttamente a Gward, come dire al Golfo Persico via terra, allo scopo di assicurarsi, anche su gomma, il costante flusso di petrolio che occorre al suo prodigioso sviluppo. Pertanto, le forze della coalizione militare presente in Afghanistan, più che combattere i talebani e Al Qaeda, stanno aiutando gli USA a resistere alla penetrazione cinese nell’area.

Ma l’Italia, oltre a voler dare una mano agli americani, quali interessi ha in quell’area? Nessuno, anzi, oltre alle vite dei suoi soldati essa vi sta dissipando milioni di euro che potrebbero andare a rimpinguare il risibile budget delle Forze Armate. Qualcuno, come il Presidente della Repubblica, sostiene che rimanere in Afghanistan e negli altri teatri esteri è importante anche per onorare le alleanze e dimostrare l’affidabilità dell’Italia. Belle parole indubbiamente ma indicative del fatto che i nostri politici non hanno capito che le alleanze militari nate con la guerra fredda – come la NATO – sono destinate a scomparire, così come è scomparsa la ragione che le fece nascere. In realtà, all’orizzonte si profilano nuovi blocchi politici e militari, e probabilmente il mondo dei nostri figli sarà multipolare e, perciò, afflitto da una conflittualità che farà sembrare la guerra fredda una signorile partita a scacchi. Per carità, nessuno propone una scelta militarista dell’Italia, però sarebbe saggio non rinunciare almeno a un dispositivo di “dissuasione minima”. Come sarebbe saggio che fosse snellita la catena di comando del nostro Esercito, ora di vertice, ingessata e sempre in fuga dalle responsabilità. È impensabile, ad esempio, che ove si trovi nell’impellente necessità di dover tirare una cannonata contro i talebani che lo stanno sopraffacendo, un comandante di Reparto debba avere il preventivo assenso del Comando Operativo di Vertice Interforze, dello Stato Maggiore Esercito, dello Stato Maggiore Difesa, del Ministro della Difesa e del Capo del governo.

Ciò che è successo ai due marò del San Marco sequestrati dalle autorità indiane, è stato proprio il frutto di questa catena inverosimilmente lunga, incapace di decidere bene e rapidamente. I problemi dai quali sono afflitte le nostre Forze Armate non sono di quelli che si possono risolvere tagliando venti/trentamila uomini e chiudendo qualche altra caserma, perché essi sono soprattutto di natura politica. Sì, perché è il Parlamento a dover decidere cosa fare dei centomila uomini dell’Esercito, deitrentaila della Marina Militare e dei quarantacinquemila all’Aviazione: ridurli ulteriormente e trasformarli in una sorta di armata del lavoro buona esclusivamente per i terremoti e le alluvioni, oppure costruirci un sistema di difesa piccolo ma agile ed efficiente?

Pertanto, la revisione alla quale ha accennato Di Paola il 25 aprile, oltre ad essere pericolosa stante gli scenari internazionali futuri, non sarebbe neppure credibile, perché a fronte di un drastico dimezzamento delle Forze Armate, in proporzione, sono aumentati i Generali: una sfoltitina ai vertici militari, quella sì, non sarebbe inopportuna! È vero, altri problemi e altre sfide si profilano all’orizzonte del nostro Paese, ma che Paese sarà se lo lasceremo senza difesa? Pertanto, non uccidiamo le Forze Armate, ma riportiamole a casa; non licenziamo i soldati, ma eliminiamo istituti assurdi come lo straordinario per i militari che fanno un lavoro straordinario per tutta la vita; i Generali chiariscano, in modo definitivo, che la politica di difesa del Paese non è un problema delle Forze Armate ma del Parlamento.

In verità sono moltissime le ragioni per cui un Paese serio non dovrebbe smobilitare le proprie Forze Armate e, una di esse, all’indomani dell’8 settembre 1943, la espresse una persona sicuramente non militarista e di specchiata fede democratica, il sindaco socialista di Molinella di Romagna, Giuseppe Bentivogli: “Quando manca l’esercito non c’è più spina dorsale in una nazione”. Forse è proprio la spina dorsale di noi tutti che dovremmo revisionare, non le Forze Armate.

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