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Artemixia

STILE CATHERINE

LUISA NEGRI - 22/04/2022

?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Ho avuto la fortuna, e non è un modo di dire, di intervistare Catherine Spaak. Mi era stato dato da un’amica, Elda Carletti, un suo libro, appena pubblicato da Bompiani. Era il 1993. Lo lessi e ne rimasi molto colpita. Se vuoi scriverne ti posso dare il suo numero, mi disse. Per ragioni di lavoro si conoscevano da tempo, la Spaak era allora testimonial di una nota casa di gioielli di Varese.

Le telefonai. E mi concesse una lunga, garbata intervista. Tre quarti d’ora, domande e risposte che entrarono, in gran parte, nella pagina della cultura della “Prealpina”.

Parlavamo della sua vita, di quella biografia sincera e insieme raffinata, scritta in modo non convenzionale. Soprattutto mi era parso il racconto di una vittoria che poteva essere esemplare per tante giovani donne. Il libro si intitola “Da me”, fiera dichiarazione di libertà e tenacia di una persona vissuta in solitudine di affetti, nonostante le importanti famiglie, quella natale e quella acquisita, due figli e una professione che l’aveva messa in contatto con tutti.

Cantante, attrice, ottima giornalista e scrittrice, sapeva fare bene ogni lavoro. Avevo letto le sue avvincenti interviste sul Corriere della Sera. Da indagatrice curiosa e sensibile, ironica e soavemente maliziosa, scrutava nel cuore del prossimo. La vita femminile era al centro del suo interesse. Con quelle delle altre si paragonava, si misurava senza invidie o complessi di inferiorità, si consolava e cercava di indicare orizzonti alle amiche che avessero avuto tempo e voglia di ascoltarla. L’avevo seguita anche in Harem, ogni volta che mi era stato possibile. Sul divano del salotto televisivo rovesciava la vita di tante donne e placava, anche loro tramite, l’ansia e il dolore di avere mancato di arrivare all’anima di chi avrebbe voluto più vicino. La madre per prima, e la figlia soprattutto. Ma verso quest’ultima emergevano in lei il pudore e la responsabilità di non colpevolizzare e non ferire.

Il ritratto dei familiari, un padre noto sceneggiatore, dilapidatore del patrimonio familiare, una madre bellissima, attrice insicura e concentrata completamente su sé stessa, usciva dal libro nella crudezza di un rapporto egoistico e interessato, senza possibilità di appello. I fatti che esponeva nel libro parlavano da soli.  E soprattutto di questo parlammo anche noi. Della sua carriera, dei film fatti, della notorietà innegabile, delle tante soddisfazioni, dei famosi colleghi, ma a prevalere, a mordere, era il lato privato, quella solitudine mai messa da parte. “Credo che la cosa più difficile che ho imparato nella mia vita sia stato accettare di non essere amata”.

Mi raccontò la lunga ricerca fatta da sola, e poi del miracolo della guarigione da una voglia matta, non di cinema -come quel suo film famoso- di lasciarsi andare e non mangiare, e chiudere per sempre.

Dietro la soddisfazione di una precoce notorietà, supportata da bellezza, stile ed eleganza, si nascondevano le manovre paterne. “Senza dirmelo, firmava per me contratti che io, minorenne, non avrei potuto firmare.” Quando rimase incinta di Fabrizio Capucci, suo primo grande amore e marito, il padre aveva in mano un contratto per lei. “Non posso lavorare” gli oppose. “Lavoravo dalle sette del mattino alle nove di sera. Dovevo imparare anche le lingue e tanto altro. Devi abortire, mi disse lui.” Gli rispose che non ci pensava proprio.

Le chiesi se non fosse più riuscita a ricucire quel rapporto con la madre. “La sto curando, mi disse, è malata e le sto vicina. Ci siamo riavvicinate e mi dedico a lei. Ma sento che ancora adesso non c’è risposta da parte sua”. Non parlammo della figlia Sabrina. Ci fermammo agli inizi di quella vita e di quell’amore, strappato da decisioni implacabili dei magistrati e dalla severità di una famiglia.

Mi raccontò infine della sua vita in quel momento, con un uomo accanto che le voleva bene. Era felice.

Appena il giornale uscì, gliene furono spedite delle copie. Mi telefonò. E, non trovandomi, parlò con simpatia e garbo con una mia figlia. Quando la richiamai mi manifestò ancora la sua approvazione, e l’entusiasmo per l’attenzione che le avevamo dedicato.

La sua umiltà mi colpì, sembrava quasi stupefatta di tanto interesse. Lo sarebbe anche ora che l’emozione accompagna le parole e i sentimenti delle innumerevoli amiche, della sorella Agnès, della figlia Sabrina. Tutte strette a lei.

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