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Sport

L’ORO DI NIBALI

CESARE CHIERICATI - 20/05/2022

nibaliÈ una sera incerta di metà marzo 2011, il 17 per la precisione, minaccia pioggia. Chi ama le corse in bici sa che il giorno dopo si corre la Sanremo. A Mendrisio terra di ciclismo e di ciclisti, una delle tre capitali insubriche del pedale con Lugano e Varese – sei campionati mondiali di ciclismo su strada organizzati al meglio – è festa grande. Si assegna il Mendrisio d’oro numero ventotto, un trofeo creato nel 1972, l’anno dopo l’epico duello per l’iride sulla salita della Brusata tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Vince il belga in volata, ma i due campioni hanno corso sullo stesso altissimo livello. Nobiltà del pedale a tutto tondo. Ideatore e gran patron del galà è Renzo Bordogna che ha alle spalle, come consigliere e poi presidente, Fiorenzo Magni, il terzo uomo con Bartali e Coppi del ciclismo italiano nel decennio ’45 –’55. In breve tempo Il premio conosce una crescita e un riconoscimento internazionali.

Pilotata da Magni e da Emilio Croci Torti, mitico gregario di Ferdy Kubler, la giuria non considera solo le statistiche e le vittorie dei candidati, ma valuta la qualità generale della stagione e dell’impegno degli atleti candidati. In quell’occasione il prescelto per i risultati raggiunti nel 2010 è Vincenzo Nibali, messinese di nascita poi toscano e infine luganese d’adozione. È salito sul podio del Giro d’Italia (terzo) e ha vinto la Vuelta di Spagna, una consacrazione definitiva dopo alcune stagioni in costante progresso. Nibali arriva alla festa verso le venti, ben registrato dentro un completo grigio scuro. Ritira il trofeo. Cordialissimo stringe mani, saluta tutti, beve due dita di champagne poi si avvicina al microfono e dice:” mi scuso con tutti voi ma domani c’è la Milano –Sanremo, mi aspettano 287 chilometri in sella e, credetemi, non è poco… è meglio che vada a dormire… vi ringrazio di cuore “.

Una grandinata d’applausi saluta la sua uscita di scena. Una signora seduta accanto a me osserva: “È prima di tutto un campione d’educazione”, a sottolineare un tratto caratteriale dell’atleta siciliano che non verrà mai meno negli anni a venire sia nei tanti momenti vittoriosi sia in quelli amari delle sconfitte. Le stagioni più ricche sono proprio quelle comprese tra il 2010 e il 2014 dove vince due Giri d’Italia e un Tour de France vedovo di Alberto Contador e Chris Froome che si autoeliminano in seguito a banali cadute.

A suggello di quel periodo felice arriva il secondo Mendrisio d’oro e l’ingresso nella speciale classifica composta dai vincitori di tutti e tre i grandi giri e di almeno due classiche monumento: Eddy Merckx, Bernard Hinault, Felice Gimondi. Per Vincenzo le classiche sono: due Giri di Lombardia e una pirotecnica Milano – Sanremo. Conosce negli anni successivi una certa flessione di rendimento che non gli impedisce comunque di salire ancora due volte sul podio del Giro d’Italia e su quello del Giro di Spagna. Alla fine i podi conquistati in carriera saranno dieci, mai nessun’altro come lui.

Durante il Tour del 2018, preparato per un rilancio in grande stile, accade che, poco prima dell’arrivo all’Alpe d’Huez, un tifoso scriteriato agganci con il collare della macchina fotografica il manubrio della bici di Vincenzo. Cade, si frattura una vertebra, è costretto a fare fagotto. Per un atleta del suo livello una batosta micidiale. Per oltre un anno non ritrova la forma migliore, i dolori alla schiena sono una compagnia scomodissima, un episodio che condiziona pesantemente la fase finale della sua grande carriera.

Eppure alcuni cronisti immemori e frettolosi nell’ora del suo congedo, annunciato nell’amata Messina due settimane fa, se ne sono dimenticati e hanno commentato con una certa sufficienza la carriera di un campione tra i più forti e completi di sempre dell’italico pedale. Alleggerito dal peso di un addio umanamente complicato, siamo certi che il messinese saprà regalare ancora qualche grande emozione dando concretezza a un assioma di un grande narratore delle due ruote qual era l’amico e collega Mario Fossati, il quale sosteneva che “i vecchi campioni, a fine carriera, da cacciatori di elefanti dovevano necessariamente trasformarsi in cacciatori di mosche”.

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