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Cultura

PESTE NERA

LIVIO GHIRINGHELLI - 17/06/2022

yersinia_pestisLa madre di tutti i contagi è stata indubbiamente trovata nella peste nera del 1348, capace di abbracciare tutto il vecchio mondo, devastando velocemente Asia, Medio Oriente, Nordafrica, Europa. Durante la peste di Hongkong del 1894 il medico giapponese Shibasaburō Kitasato, allievo a Berlino di Robert Koch e Alexandre Yersin, studente svizzero già allievo di Louis Pasteur, scoprirono l’esistenza del medesimo bacillo nei tessuti dei topi e degli umani morti per il contagio. Con buona pace di Sh. Kitasato il bacillo è rimasto battezzato come Yersinia pestis; lo si potrebbe definire un “organismo ectoparassita tellurico”.

Gemello buono della Yersinia pseudotuberculosis, sopravvivente nei corsi d’acqua e nel terreno, relativamente benigno, 28 mila anni fa Yersinia pestis si è staccato dal gemello, mostrando codice genetico, genoma, impronta digitale per lasciare un ricordo micidiale nella storia dell’umanità, grazie alla rapida capacità di invasione e colonizzazione di nuovi territori, di adattarsi ad ambienti climatici differenti, di resistenza, di preferenza per i mammiferi come compagni di viaggio. Tramite particolare è stato una specie di roditore, il rattus rattus, il topo nero; cavallo di Troia un parassita, la pulce, la Xenopsylla cheopis, principale vettore della peste.

La Xenopsylla, infettata del bacillo della Yersinia, non è più in grado di digerire il suo cibo, si ciba allora del sangue dei topi e quando questi muoiono aggredisce un nuovo ospite, l’uomo, servendosi nella caccia del grano, sito in depositi o riserve o di panni, fondamentale articolo di commercio. Tra le tante strade di contagio comunque la più micidiale è risultata quella respiratoria, la forma polmonare, la più pericolosa per chi sta vicino all’ammalato. Periodo di incubazione da uno a sei giorni, la mortalità raggiunge il cento per cento dei casi.

La malattia da enzootica si fa epizootica, quindi panzootica, zoonotica e finalmente pandemica. Dalla virulenza attenuata si passa ai casi in cui il clima cambia e piove maggiormente, infittendosi la vegetazione aumentano i portatori, i roditori selvaggi, l’umidità incrementa le larve delle pulci; cacciatori, boscaioli, pastori entrano in contatto, lavorano le pelli, li mangiano, ne ricavano indumenti, guanti, pellicce.

Per arrivare alla pandemia bisogna che i roditori selvaggi entrino in contatto con quelli comuni in rapporto con gli uomini. I ratti muoiono in massa e gli uomini sono assediati, diventano i nuovi portatori privilegiati. Si trasformano in vettori tutti gli strumenti di lavoro, i mercati, le strade, le rotte commerciali, le carovaniere, i porti,  i traffici transsahariani, le vie della seta e quelle dei monsoni. Le città, grandi elementi di snodo, si fanno violenti focolai per una massa di poveri, di indigenti, affamati. Di norma la mancanza di igiene e di salute pubblica. Nelle campagne gli abitanti sono afflitti da sequenze di carestie, indeboliti vedono l’ecatombe dei propri animali.

Prima del XIV secolo, giunta nel Mediterraneo all’epoca di Giustiniano, la peste bubbonica aveva avuto un ultimo violento sussulto nel 749. Ora, nel 1347, a quanto attesta il fiorentino Matteo Villani, ha inizio nelle parti d’Oriente vicine al Catai e all’India superiore e nelle province circostanti l’Oceano Indiano. Si trascorre alla penisola arabica, ne è investita l’Eurasia. Le espressioni geografiche restano sfocate, nebulose, si sconfina nel fantastico. Le notizie in Europa si accavallano. La Cina veniva considerata sia nel mondo islamico, che in quello cristiano, l’epicentro della malattia. Purtroppo restano cronache sporadiche, accenni, nulla di elaborato. Oggi però i tracciatori di peste e di genomi danno più confortanti conferme e si sposta il focus dal Centro Asia verso l’Estremo Oriente. La peste pare dunque nata nel Qinghai, area remota, alta, legata ai monsoni del Sudest asiatico, ricca di vegetazione.

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