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Il punto blu

GLI SPARI, LA PAURA

DINO AZZALIN - 23/06/2022

ol-ari-nyiroDi ritorno dalla missione di volontariato nel Medical Centre di Kiamunyi, che si trova a circa una decina di chilometri da Nakuru, nella contea della Laikipia, una delle più pulite città africane, decisi per una variante al tragitto stradale. Avevo previsto di far visita alla fattoria di Kuki Gallmann, l’autrice del libro “Sognando l’Africa” reso famoso dal film di Hugh Hudson con protagonista Kim Basinger.

Alan, l’autista, un africano con barba ispida di origine bantù che ci avrebbe accompagnato a Nairobi, disse che era una bella strada, ma dove non era mai stato: certo non potevo immaginare quel che sarebbe successo di lì a poco. Su Google Maps avevamo visto che da Nakuru passando per Nyahururu al bivio della strada per Rumuruti dovevamo imboccare la strada che porta al villaggio di Kinamba, per poi addentrarci nella foresta prima di raggiungere il “Gate” della riserva naturale di Ol Ari Nyiro, oggi divenuta una Conservancy, cioè un area protetta dal governo per la tutela dell’ambiente naturale della fauna e della flora e delle popolazioni che ci vivono.

Il tutto cumulava in un tragitto di 113 chilometri e un tempo previsto di poco meno di due ore, ma se c’è una cosa che Google non conosce è proprio l’Africa e i suoi tempi biblici. Ed eravamo quasi a più di tre ore di viaggio (113 km) quando, usciti dall’asfalto subito dopo il villaggio, avevamo percorso una ventina di chilometri di strada sterrata lungo la quale avremmo trovato il gate coi guardiani. Almeno così ci avevano detto le persone cui avevamo chiesto. Il caldo era diventato quasi insopportabile ma la curiosità era ancora tanta. A un certo punto la strada rossa svolta su una piccola curva dove in fondo si intravede il famoso “gate”, l’entrata nella riserva. Alan che era stato silenzioso fino a quel momento disse “the gate is here”. Mi immaginavo un’entrata più sontuosa ma sister Leul, che era con noi e stava pregando, ci sorprese con questa uscita “what are this tends?, notando una serie di piccole canadesi bianche completamente abbandonate, con fossi simili a trincee e uno strano bugigattolo al centro fatto di assi scure a simulare un gabinetto a cielo aperto.

Non facciamo in tempo a guardarci intorno che da dietro gli alberi sbucano davanti al veicolo tre uomini con le armi spianate davanti a noi. “Oh my God” esclama la suora, “What’s happen?” dice Alan, e io, memore del rapimento che mi era accaduto nel 1995, (vedi Diario d’Africa), “No, un’altra volta”. E quasi immediatamente altri due uomini a lato del pulmino con kalashnikov e fucili spianati, poi altri tre uomini, anche loro impugnando armi e pistole: quello che era fino a un minuto prima uno strano e disabitato campeggio in un attimo, si è trasformato in un fronte di guerra.

Restiamo senza parole ma soprattutto disorientati, confusi e impauriti. Alan, con il suo incredibile savoir faire, tira giù il finestrino e chiedi lumi di quel che stava succedendo, ma nessuno risponde. Solo il più piccolo dice ad Alan di arretrare di una ventina di metri e di parcheggiare l’auto dietro un cumulo di terra e di spegnere il motore. Presto fatto e sempre sotto mira delle armi.

Alan esegue e spegne il motore. La suora riprende a pregare e qualche minuto dopo, accompagnato da altri due uomini armati, un uomo scuro che aveva l’aria di essere il capo finalmente inizia a parlare con Alan: ci chiede se trasportiamo armi nel veicolo, e ci spiega che è in corso una guerriglia tra la tribù dei Pokot e i Masai per delle questioni di pascolo e di terre e che loro sono militari governativi che hanno l’obbligo di non lasciar passare nessuno.

Ci fanno scendere, ma proprio in quel momento dei colpi di mitra risuonano nell’aria. Alcuni di loro si appostano dietro i cumuli di terra e noi ci ripariamo dietro al pulmino. Ma lui ci tranquillizza dicendoci che sono lontani, e loro sono lì per proteggerci, di non aver paura e proprio per questo dobbiamo offrir loro i soldi per una capra che avrebbero comprato, sgozzato e mangiato la sera stessa. Riusciamo anche a farci fare una foto “ricordo”: così un momento surreale e grottesco, di autentico terrore finisce come dicono in Toscana a “tarallucci e vino”.

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