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Opinioni

LA VITA SPEZZATA DI GIOVANNI FALCONE

CESARE CHIERICATI - 18/05/2012

Mercoledì 23 maggio 2012 sarà il ventesimo anniversario della strage di Capaci in cui furono uccisi il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, magistrato anche lei, e gli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani, Antonino Montinaro. Vent’anni e sembra ieri quando la terribile notizia fu battuta dalle telescriventi in quel drammatico pomeriggio – Internet era di là da venire.

Fu uno dei momenti più tragici della storia repubblicana che due mesi dopo trovò sinistra replica nell’omicidio di Via d’Amelio dove cadde Paolo Borsellino, amico e collega preparato quanto Falcone. Forse solo l’attentato a Togliatti (il 14 luglio 1948), i morti di Reggio Emilia sotto il governo Tambroni nel luglio 1960, le stragi di Milano, Brescia, Firenze, del treno Italicus, della stazione di Bologna, il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro (1978) colpirono così a fondo la coscienza di un Paese peraltro abituato agli intrighi, alle mezze verità, agli insabbiamenti, ai “porti delle nebbie” come venivano definite, all’epoca, alcune Procure della Repubblica. Ci fu una reazione morale, culturale, giudiziaria, anche politica, molto netta che di fatto fece da argine allo scivolamento verso una sorta di Stato “guatemalteco” come scrisse Indro Montanelli. Non vinse la rassegnazione.

Per questa ragione nell’ora della memoria e delle commemorazioni, della moltiplicazione delle biografie e delle ricostruzioni, delle rivelazioni postume incontrollabili, è bene tenere distinti, nel limite del possibile, quanti sostennero Giovanni Falcone da quanti – e furono davvero tanti – lo avversarono più o meno apertamente dentro le istituzioni, nei partiti, nei giornali, nelle case editrici, nella stessa magistratura. Se ne parla, giustamente, come di un “eroe, un simbolo di questo Paese, anche per i suoi tanti nemici, da morto però” come ha sottolineato con amarezza al Salone del libro di Torino Lirio Abbate, un eccellente collega espertissimo di mafia.

Se si scorre, sia pure a grandi linee, il percorso professionale di Falcone ci si trova di fronte a grandi successi investigativi e giudiziari subito seguiti da incredibili penalizzazioni di carriera. Il successo più noto fu il maxiprocesso con il rinvio a giudizio di 475 imputati, le condanne dell’87 poi confermate in toto dalla Cassazione, frutto di una nuova visione della mafia intesa come organizzazione verticistica e strutturata che ribaltava il vecchio modo di procedere degli inquirenti frammentato e localistico. A un certo punto – siamo nella seconda metà degli anni Ottanta – molti cominciarono a vedere in quel magistrato preparatissimo, rigoroso, schivo e ostinato una minaccia seria alle prassi corporative interne alla magistratura, agli equilibri taciti e inconfessabili tra poteri legali e poteri mafiosi. Cercarono di fermarlo in un primo momento negandogli il posto di Consigliere Istruttore a Palermo preferendogli Antonino Meli – passato anche da Varese – un giudice burocrate che di fatto smantellò, con il formale consenso della Cassazione, il cosiddetto pool antimafia fino allora diretto da Antonino Caponnetto, ed entrando quindi in rotta di collisione con Falcone e i suoi più stretti collaboratori. Sei mesi più tardi gli venne negata anche la nomina di Alto Commissario antimafia. IL 20 giugno 1989 ci fu il fallito attentato all’Addaura, vicino a Mondello. Dopo le indignazioni di rito cominciarono a circolare voci che insinuavano che in realtà fosse un auto attentato, orchestrato dallo stesso giudice per alimentare il proprio mito. In quella drammatica circostanza disse: “…Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.

Una settimana dopo il Consiglio Superiore della Magistratura lo nominò Procuratore aggiunto a Palermo. Per alcuni, tra cui Leoluca Orlando, quella frase e quell’incarico furono la prova che Falcone avrebbe “tenuto nei cassetti” carte determinanti relative al cosiddetto “terzo livello” mafioso, quello dei politici collusi. Il clima di veleni e sospetti era ormai insopportabile così nel marzo ‘91 se ne andò a Roma al vertice della direzione degli Affari penali del Ministero di Giustizia su proposta dell’allora ministro Claudio Martelli. Il 15 ottobre fu costretto a difendersi davanti al CSM in seguito a un esposto presentato un mese prima proprio da Leoluca Orlando.

Mi trovavo a Palermo in quei giorni e io stesso, che ebbi la fortuna umana e professionale di incontrare in alcune occasioni Falcone e Borsellino, posso testimoniare il clima avvelenato che si respirava. Al telefono un giovane procuratore mi confermò a tutto tondo la teoria delle “carte nei cassetti” avvalorando anche la tesi di presunti patteggiamenti in atto tra Giovanni Falcone e la politica. Fu un colloquio sconcertante, incredibile. Neppure un mese dopo su suo progetto venne istituita la Direzione nazionale antimafia che prevedeva l’innovativa carica di Procuratore nazionale antimafia. Era il naturale candidato ma ancora una volta ci furono forti resistenze all’interno del CSM. Quando l’esplosivo lo raggiunse a Capaci non era ancora stata presa una decisione definitiva. A vent’anni di distanza sono stati individuati e condannati gli esecutori della strage ma resta senza risposta la domanda che davanti al feretro del magistrato pose l’allora Cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo “… Falcone si muoveva in via e con mezzi che dovevano rimanere coperti dal più sicuro riserbo. Chi li conosceva? Chi li ha rivelati ai nemici dei giudici?”.

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