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Attualità

E INVECE…

GIOIA GENTILE - 22/07/2022

calabriaEra l’estate del 1983, quasi quarant’anni fa. Me ne rendo conto solo guardando le foto in cui mi vedo giovane e magra, circondata da parenti che ormai non ci sono più. Eppure mi sembra ieri. Quella fu l’ultima volta in cui tornai nella casa di mio padre in Calabria. Per venderla. Fu una decisione razionale che il cuore non condivideva, ma si era chiusa un’epoca e bisognava prenderne atto. Era finita l’epoca della villeggiatura. Cominciavano le vacanze brevi e i viaggi per conoscere luoghi sempre diversi.

In quella casa ho vissuto i primi cinque anni della mia vita e poi ogni estate fino ai sedici. Non si trattava di villeggiatura nel senso goldoniano del termine – non ci attendeva una villa di delizie – quanto di ritorno al paese. Per mio padre. Per mia madre, invece, significava soggiornare in un luogo straniero, dove i disagi erano maggiori e il lavoro si moltiplicava. Neppure io ci andavo volentieri: anche se ritrovavo parenti e amici a cui volevo bene, mi dispiaceva lasciare Varese, dove ormai avevo costruito la mia vita e di cui riuscivo ad amare – incredibile a dirsi – persino le giornate fresche e brumose che mi accoglievano a fine settembre.

Quindi nell’83, ritornandoci per venderla, pensavo che non avrei avuto nessun rimpianto. E invece… Ancora prima di entrare fui catapultata indietro negli anni dell’infanzia da un profumo dolce e intenso: mia cugina, che abitava con la famiglia nell’appartamento sopra il mio, stava facendo la marmellata e l’aroma si diffondeva fin sulla strada. Mi bastò varcare la porta per sentirmi a casa. Esplorai uno ad uno gli spazi. Erano come li ricordavo: le scale dove facevo gare di salto con i miei cugini, la finestrella del ballatoio sul cui davanzale ci sedevamo a fare merenda con pane e pomodori, la sala, le camere, il “portone”, come chiamavamo l’andito del piano terra su cui si apriva l’ingresso principale. E tutto era “casa”. Non era solo la nostalgia dell’infanzia che addolciva i ricordi, era come se avessi ritrovato una parte di me e mi sentissi finalmente al posto giusto. Cominciò così la mia ultima villeggiatura.

Certo, era diversa da quelle di un tempo: il paese si era ammodernato, l’acqua usciva regolarmente dai rubinetti – persino la calda -, tante persone non c’erano più. Però il tempo scorreva ancora lento, non dovevamo rispettare orari assillanti, potevamo godere di una gita al mare su una spiaggia quasi deserta, di una passeggiata in campagna raccontandoci le nostre vite mentre raccoglievamo more o fichi. Si levava ancora, di giorno, il frinire assordante delle cicale, e il canto dei grilli invadeva la valle, la sera.

Dopo cena il paese si addormentava: cinema, discoteche, concerti appartenevano ad una realtà cittadina. Noi evitavamo anche la televisione, preferendo restare seduti a tavola tra cugini a raccontarci storie vere, del passato e del presente, per ritrovarci, dopo tanto tempo, di nuovo uniti. A volte uscivamo a fare due passi sulla strada che costeggiava il nostro quartiere, dove quasi non passavano auto. Allora ricordavo altre passeggiate su quella stessa strada, quando, prima dell’asfalto e dei lampioni, si potevano contare milioni di stelle e di lucciole.

Di quelle villeggiature mi mancano i colori, i profumi, la quiete e il silenzio, condivisi con persone care con cui era facile parlare e anche tacere. Ed essere capiti comunque.

Mi chiedo che cosa trovino i giovani d’oggi nel rumore in cui si illudono di divertirsi, nello sballo che toglie loro la consapevolezza di sé e dunque anche del divertimento. E, sinceramente, mi sento triste per loro.

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