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Sport

MITICO PEO

CLAUDIO PIOVANELLI - 09/09/2022

peoDieci anni senza Peo.

Venerdì prossimo, 16 settembre, saranno due lustri dal giorno in cui Pietro Maroso ci ha lasciato dopo una breve malattia. Di lui, a Varese, non resta moltissimo: solo la Curva Nord, che gli venne dedicata poco dopo la scomparsa (e che, ironia della sorte, è chiusa da anni) e il ricordo affettuoso degli amici più cari.

Eppure Peo Maroso è stato uno dei personaggi sportivi più titolati della nostra città: ha vinto con i colori biancorossi un campionato da giocatore (quello storico che nel 1964 condusse per la prima volta il Varese in serie A), due da allenatore (nel 1974 riportò la formazione varesina per l’ultima volta in serie A e nel 1990 vinse in serie C2) e, da presidente, prima effettivo e poi onorario, ha vissuto tutto il periodo legato prima a Riccardo Sogliano e poi ad Antonio Rosati e contrassegnato dalla irresistibile ascesa dei colori biancorossi dall’Eccellenza in cui era precipitato alla serie B, riconquistata nel 2010 dopo 25 anni.

Giocatore amatissimo dal pubblico del “Franco Ossola”, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, per l’impegno, la tenacia e l’abnegazione messi in campo ad ogni allacciata di scarpe, magari a dispetto di qualità tecniche non eccelse alle quali sopperiva con la sua proverbiale grinta, Peo è stato un allenatore che a più riprese ha segnato la storia biancorossa, vincendo come s’è detto due campionati e sfiorando in altre occasioni l’impresa. E anche da dirigente, con la sua saggezza e la sua sagacia, ha saputo dare un’impronta, come i risultati del resto sono lì a dimostrare, contribuendo ai successi che hanno illuminato quell’ultimo decennio di fulgore biancorosso.

Delle “tre vite calcistiche” di Peo Maroso ci piace ricordare soprattutto quella di calciatore, segnata da un episodio che la marchia in maniera profonda. A 18 anni, nel 1952, Peo gioca nelle formazioni giovanili del Torino, del quale il fratello Virgilio (morto quattro anni prima nello schianto di Superga) era stato una stella. Una epidemia influenzale decima la prima squadra e il giovanissimo Peo viene allertato per l’esordio in serie A sul campo dell’Udinese. Ma una visita medica preliminare al debutto rivela un vizio cardiaco che gli impone addirittura lo stop: carriera finita!

Così, all’improvviso, questo diciottenne (già duramente provato dalla tragica scomparsa del fratello maggiore) si ritrova sbalzato dalla agognata serie A alla Fiat che lo assume come fresatore. Solo qualche anno più tardi, dopo alcune rassicuranti visite mediche, Peo può ricominciare dal calcio dilettantistico e a 21 anni, senza troppe pretese né speranze, riparte dal Madonna in Campagna per poi passare alla Fossanese, in serie D e successivamente all’Ivrea, in serie C. A Varese approda quasi per caso nel 1963 e diventa subito protagonista, conquistando il cuore dei tifosi. Poi, vincendo il campionato di serie B da protagonista alla sua prima esperienza a questo livello, corona il grande sogno di giocare in quella serie A che pareva irrimediabilmente sfuggita 12 stagioni prima e nella quale può finalmente debuttare a trent’anni suonati nel campionato 1964-65. Un premio che Peo, con la proverbiale tenacia, terrà stretto per alcuni anni, arrivando a collezionare 93 presenze nella massima serie (e altre 76 in serie B), naturalmente tutte con la maglia biancorossa.

Nel 1969, appese le scarpette al fatidico chiodo, l’inizio della carriera di allenatore che, con alterne fortune, lo conduce, dopo Varese, a Genova (sponda rossoblù), San Benedetto del Tronto, Legnano, Novara e Venezia ma anche di nuovo a Varese in altre due occasioni. Nel celebrare Peo a dieci anni dalla sua scomparsa, un doveroso tributo va anche a Rosi, sua moglie. Rosi non è stata la “compagna del calciatore” secondo la più classica rappresentazione dei nostri giorni: lei, giovanissima, è la fidanzatina di un ragazzino che sogna la serie A con il suo Torino ed è accanto a questo giovane che ha messo i bei sogni nel cassetto anche quando fa l’operaio alla Fiat e gioca a calcio in una squadretta di paese. Pochi hanno riconosciuto anche a lei dei meriti quando il marito si è ritrovato, prima da giocatore e poi da allenatore, in serie A; ma… meglio tardi che mai.

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