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Politica

L’ERRORE

ROBERTO CECCHI - 19/05/2023

presidenzialismoSuccede – è successo – disgraziatamente che qualcuno sia finito in ospedale per operarsi al ginocchio destro e invece sia stato operato a quello sinistro, sano, perfettamente funzionante. Capita. E quando succede, è giusto indignarsi, perché sono incidenti deplorevoli. Inammissibili. Ora però c’è il rischio che un incidente del genere capiti alla nostra Carta Costituzionale, nel metterci mano, emendandola, per dar vita all’elezione diretta del Capo dello Stato. Una riforma che rischia di produrre danni alla parte più sana del nostro ordinamento, lasciando intatto, invece, quel che effettivamente non funziona. Sarebbe imperdonabile.

A giugno del 2018 Fratelli d’Italia presentarono un progetto di riforma costituzionale (Atto Camera n. 716; Atto Senato n. 1489) per l’elezione diretta del presidente della Repubblica, che prevede la modifica della seconda parte della Costituzione. In particolare, gli articoli da 83 a 89, che riguardano il Presidente della Repubblica, gli articoli da 92 a 96, relativi al Governo e l’articolo 104 sul Consiglio Superiore della Magistratura. Un progetto che nelle sue linee essenziali tende “ad annullare, attraverso l’elezione diretta del vertice statuale, l’attuale funzione del Presidente della Repubblica quale garante imparziale dell’unità nazionale (e cioè sia della maggioranza che delle minoranze) per trasformarla in una funzione di parte qual è quella che spetta al maggior titolare dell’indirizzo politico di maggioranza. Con questa operazione le minoranze, attraverso la trasformazione dell’organo supremo di garanzia nell’organo supremo di governo, vengono a perdere una delle loro maggiori linee di difesa, mentre si concentra nelle mani di una sola persona fisica un potere particolarmente esteso e penetrante” (Cheli, 2022).

L’obbiettivo di tutto questo è la governabilità. E cioè, il pensare che con questa riforma si possano garantire gabinetti che durino più a lungo. Che abbiano la capacità di decidere. Che siano capaci di realizzare i progetti necessari alla collettività. Dunque, un progetto condivisibile negli intenti, che ha accomunato destra e sinistra, fin dal momento costituente quando, però, venne rapidamente accantonato, per far posto ad una forma di governo più equilibrata, che è quella che abbiamo avuto fino ad ora. Più tardi, negli anni Settanta, il progetto riprese vita per iniziativa del Partito Socialista, nella convinzione che i problemi di gestione della cosa pubblica dipendessero da una Costituzione eccessivamente garantista “troppo gravata da cheks and balances”. E cioè, da un eccesso di pesi e contrappesi, che rallentano il lavoro dell’esecutivo e tendono a bloccare qualsiasi cosa.

In realtà, in questi quasi ottant’anni, ormai, che ci separano dalla nascita della Costituzione, se c’è qualcosa che ha funzionato è stato proprio l’impianto costituzionale. Ha saputo essere la Carta di tutti, è rimasta super partes, ed è il riferimento (quasi sempre) delle diverse parti del Paese. Ha saputo fare da bilanciamento alle disfunzioni del sistema politico, alle suddivisioni, alla sua autoreferenzialità, alla sua incapacità di dare una prospettiva, adoperandosi per stemperare le differenze e supplendo alla mancanza di qualità. È un impianto che è stato capace di contemperare le istanze più diverse, appianando quel che ci mette costantemente in contrapposizione. E quindi è stato un freno alle lacerazioni, dando una sensazione d’unità e coesione che rischiamo di perdere.

Quel che invece in questi decenni non ha proprio funzionato è stato il sistema dei partiti. All’inizio, negli anni ’50-’60, la Dc ha fatto da “stanza di compensazione” tra tutte le incertezze, facendo leva su un peso elettorale di tutto rispetto. Man mano che la sua forza perdeva di vigore, le contrapposizioni tra i partiti si sono fatte sempre più marcate e inconciliabili. La modesta, modestissima, qualità della classe politica, cui è affidato il compito di far funzionare la macchina di governo, ha fatto il resto. Da qui, il distacco della collettività dalla politica, come dimostra il fatto che quasi la metà dell’elettorato si astiene dal partecipare alle votazioni. Dunque, è questo il punto da riformare, non altro, concentrandosi magari sulle modifiche alla legge elettorale, sulla “disciplina e il finanziamento dei partiti politici, o la promozione delle tecniche di selezione e formazione della classe governante”.

Mentre una riforma costituzionale che andasse nella direzione prospettata in questi giorni, non farebbe altro che peggiorare la situazione. Perché un Presidente di parte, accentuerebbe la fragilità del sistema e farebbe esplodere le contrapposizioni, causando fratture profonde al tessuto istituzionale. Insomma, accadrebbe esattamente il contrario di quel che serve. D’altra parte, se una maggioranza numericamente solida, come quella attuale, sente il bisogno del presidenzialismo, vuol dire che i problemi non stanno nell’impianto costituzionale, ma all’interno della compagine di governo.

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