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Sport

MITICO DINO

FLAVIO VANETTI - 21/09/2023

meneghinVenerdì 13 ottobre Rai3 manderà in onda “Dino Meneghin, storia di una leggenda”, un film documentario di Samuele Rossi prodotto da Solaria Film Echivisivi in collaborazione con Rai Documentaries. L’orario della “prima” televisiva non è il massimo – le 16 -, ma sono previste repliche in fasce migliori. Vi consiglio di vederlo, e non tanto perché io sono una delle voci narranti, ma perché Rossi, appassionato di basket e a sua volta incantato dal mito di Dino, ha saputo scegliere una trama accattivante, riuscendo a fare una sintesi perfetta (il film dura 52 minuti) dal tanto materiale acquisito. Nel 2011 ho scritto, per la Rizzoli ai tempi ancora inglobata in Rcs,  “Passi da Gigante”, autobiografia scanzonata nella quale Meneghin ha avuto modo di raccontare, in un ascensore tra passaggi seri e momenti di puro cabaret, aspetti della sua vita e della sua carriera. Nel libro c’era anche uno scoop, che ha riproposto una pagina controversa del suo essere giocatore: la vicenda della famosa monetina che lo colpì a Pesaro in una partita di playoff contro la Scavolini. Ebbene, anni e anni dopo, Dino ha ammesso che era nelle condizioni di proseguire il match, ma che aveva deciso di non farlo perché la sanzione che sarebbe stata comminata – 0-20 a tavolino e, di fatto, caccia al titolo compromessa per i marchigiani – avrebbe dato una lezione ai tifosi beceri e violenti. Dopo aver letto la confessione, a Pesaro qualcuno è tornato ad arrabbiarsi…

“Passi da Gigante”, dicevo, mi ha presentato tanti aspetti che con conoscevo di Dino, il campione che agli albori della mia carriera giornalistica avevo timore ad avvicinare (andavo agli allenamenti della Mobilgirgi al palasport di Varese e mi bloccavo poco dopo aver deciso di farmi sotto e di presentarmi…). Ma il film, se mai possibile, mi ha presentato nuove vicende inedite. Lo sapevate, ad esempio, che la carriera di Meneghin era probabilmente scritta nei geni familiari, avendo un bisnonno che a metà dell’800 era alto come lui (e a quei tempi era come essere, a occhio, 2.20 oggi)? Ecco, io non ne ero al corrente. E forse anche molti dei suoi ex compagni alla Ignis ignoravano che aveva avuto un avo “watusso”. Il percorso narrativo scelto da Rossi ha contemplato delle scelte: ad esempio, c’è solo un fugace accenno alla parte triestina della sua carriera, usato più che altro per ricordare che dopo la parentesi alla Stefanel di Boscia Tanjevic sarebbe tornato a Milano per chiudere la carriera, a 44 anni di età (più longevo di Kareem Abdul Jabbar). La trama ha così una sorta di traguardo ideale: l’annata 1986-87, quella della tripletta scudetto-Coppa Italia-Coppa dei Campioni. Soprattutto Coppa dei Campioni, perché nel trionfo di Losanna, contro il Maccabi Tel Aviv, Dino vide il riscatto della delusione del 1983 a Grenoble, “quando perdemmo la finale tutta italiana contro Cantù e io giocai la peggior partita della mia vita”. Prima di quell’apogeo c’è la storia precedente. Procede dalla fanciullezza ad Alano di Piave, prosegue con la decisione del padre di trasferire la famiglia per ragioni di lavoro, segna una svolta con l’arrivo (nel 1958) in una Varese già pronta a diventare una Basket City e si inerpica lungo un sentiero sportivo (casuale la scoperta del basket, dovuta al professor Nico Messina) diventato sempre più glorioso, ma nel quale non manca la componente umana. Tra gli altri parlano il fratello Renzo, la moglie Caterina e il figlio Andrea, che non ha avuto remore nel raccontare come il rapporto con quel papà dal quale si sentiva sostanzialmente abbandonato sia cambiato in meglio nel corso degli anni fino a trasformarsi in un legame oggi solido e rodato. Chi ha visto il film, lo scorso 15 settembre a Milano, s’è commosso. Io, che sapevo di non poter essere presente al vernissage, ho potuto vivere le stesse emozioni “prima dell’anteprima” grazie a un link del documentario ad uso esclusivamente privato. Davvero un bel documentario, che colma una lacuna su un grande campione.

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