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Sport

SOVRANO DELLE DUE RUOTE

CESARE CHIERICATI - 21/09/2023

coppi

Coppi al Vigorelli nel 1953

Era il 4 settembre del 1953. Fausto Coppi, fresco iridato della strada a Lugano, affrontava al Vigorelli di Milano il due volte campione del mondo dell’inseguimento individuale, Sidney Patterson. Sulla pista di Oerlikon (Zurigo) l’australiano aveva bissato il successo dell’anno precedente a Parigi. Esibiva una forma smagliante, esito di una preparazione accuratissima, specifica per la dispendiosa specialità. Al contrario il campione di Castellania aveva nei muscoli gli allenamenti durissimi sostenuti per la prova su strada dei professionisti chiamati a misurarsi, nella capitale del Ceresio, su uno dei circuiti ancor oggi considerato tra i più selettivi della storia dei mondiali. Per lui un confronto delicato, realisticamente avrebbe potuto perdere e ciò non avrebbe giovato alla sua Casa, la mitica Bianchi.

Decise quindi di correre il rischio. Cercò di sciogliere i muscoli a suon di massaggi e con lunghe sgroppate dietro motori nei giorni precedenti la sfida. Quella lontana domenica il velodromo Vigorelli, la pista magica meneghina rivestita con pino di Svezia, era esaurito al limite della capienza (18 mila persone). Ancora oggi ricordo distintamente il silenzio che avvolse l’anello negli attimi che precedettero il colpo di pistola dello starter. Un boato esplose quando i due campioni partirono dandosi la caccia. Una luce verde per Coppi, in maglia bianca e celeste, e una rossa per Patterson, in maglia iridata – piazzate all’altezza delle rispettive linee di partenza – davano, giro dopo giro, l’andamento della sfida. Fino a metà gara (l’intera distanza era di 5 mila metri) l’esito parve incerto: qualche metro a vantaggio ora dell’uno ora dell’altro. Poi il campionissimo distese per intero la sua azione al tempo stesso elegante e potentissima. Per il biondo canguro scese inesorabile il buio come era già accaduto in una sfida precedente.

Spinto dall’entusiasmo incontenibile dei suoi sostenitori, Coppi fermò i cronometri sul tempo di 6’06”1, media 49,153, trenta metri tra lui e l’australiano, la miglior prestazione della sua luminosa carriera di inseguitore con due titoli mondiali all’attivo, nel 1947 e nel ’49 e quattro maglie tricolori. In quel lontano settembre del ’53, sui legni del Vigorelli, fu idealmente incoronato sovrano assoluto del ciclismo. Era alla vigilia del suo trentaquattresimo compleanno. Seguirono annate complicate dall’avanzare dell’età, dalle sue vicende sentimentali, dalla sfortuna che lo perseguitò sempre. Di tanto in tanto però la sua classe senza confini tornava ad illuminare le strade con altri successi, l’ultimo (1957) contro il tempo al trofeo Baracchi, in coppia con Ercole Baldini. L’affetto della gente non si affievoliva, al contrario aumentava come se lui, il campionissimo, non dovesse finire mai.
Poi sette anni più tardi, 2 gennaio 1960, il distacco repentino, la morte assurda per malaria non identificata dai sanitari, quegli incredibili funerali sulle colline di Castellania, il dilatarsi della sua leggenda nel tempo diventata quasi un culto laico. Un fenomeno epocale quello del fuoriclasse piemontese difficile da spiegare con le categorie della razionalità, con il semplice metro delle statistiche ciclistiche e della scienza sportiva. Coppi era un unicum atletico ed emozionale, non aveva riferimenti nel passato e non ebbe eredi nel futuro che seguì la sua fine. Chi ha vissuto in qualche modo da vicino la sua folgorante parabola deve considerarsi un privilegiato dalla sorte.

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