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Politica

IL DIVINATORE GIULIO

ROBERTO CECCHI - 02/11/2023

andreottiIn questi giorni, in rete, sta girando un discorso di Giulio Andreotti di una trentina d’anni fa, in cui l’esponente democristiano parla di migrazioni, di Africa, di Medioriente, con una verve inconsueta e inusuale per lui (almeno per quel che ricordo). Un breve intervento, nel quale si percepisce un coinvolgimento quasi personale, profondo, ed emerge un’immagine diversa di quest’uomo, conosciuto per essere stato sempre misurato, dall’eloquio dimesso, condito ogni tanto da qualche battuta salace, proferita comunque sempre sottovoce. Invece, qui, in queste parole di tanti anni fa, l’anziano parlamentare della DC anticipava con grande lucidità la crisi che stiamo vivendo adesso, proprio in questi anni.

È il 30 agosto del 1991, quando Andreotti, senatore a vita, interviene al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione e sottolinea, in un discorso a braccio, che “se noi da qui a 10-15 anni non avremo ancora cominciato”a mettere in condizioni accettabili i popoli vicini, come quelli del Magreb, che vivono a poca distanza da noi, avremo problemi seri e continue turbolenze. Popolazioni come quella algerina -proseguiva – “che per i due terzi ha meno di trent’anni e la gente che cresce continuamente. Se noi non mettiamo questi paesi in condizione di avere delle condizioni di vita industriale, di vita artigianale di vita turistica, ci saranno milioni e milioni di persone che sfonderanno i confini dell’Europa! e allora sarà veramente la marcia dei Tartari, sarà veramente qualcosa di veramente non frenabile!”. Da qui, l’esigenza di cambiare registro, di darsi una politica capace di affrontare una sfida epocale.

Da allora che è successo? Che cosa abbiam fatto? Qualcuno in Italia e in Europa si è preoccupato di dare un seguito a quelle riflessioni? Niente. Assolutamente niente. Eppure provenivano da un soggetto politico autorevole, un conoscitore attento della questione mediorientale. E invece abbiam continuato a vivere beatamente oltre le nostre possibilità, senza guardare a quel che stava accadendo accanto a noi. Adesso che quella previsione si sta avverando, dato che “nel solo mese di agosto sono sbarcate in Italia più di venticinquemila persone, che si aggiungono alle oltre ventitremila di luglio”, sono state annunciate misure eccezionali: “sarà affidato all’Esercito il compito di creare e gestire nuove strutture detentive in cui trattenere «chiunque entri illegalmente in Italia per tutto il tempo necessario alla definizione della sue eventuale richiesta d’asilo e per la sua effettiva espulsione nel caso in cui sia irregolare»”, da collocarsi “in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili”(Campesi, 9.23).

Una misura lunare, come cercar di fermare il vento con le mani. Impossibile da realizzare, perché vorrebbe dire, oltretutto, creare strutture detentive per ca. ventimila persone. Frutto di quel clima preelettorale avvelenato, che cercava di tranquillizzare la popolazione, preoccupata dall’ondata migratoria, promettendo di schierare l’esercito. Adesso, si è arrivati a dire che “quando arrivano 120 mezzi navali in poche ore non è un episodio spontaneo, è un atto di guerra […] Seimila persone in 24 ore non arrivano per caso. Sono convinto ci sia una regia dietro a questo esodo”ha dichiarato Salvini (adnkronos 13.9.23). Non c’è niente di tutto questo, ovviamente. Non ci sono macchinazioni occulte da svelare. Ci sono, molto “semplicemente”, situazioni di crisi e di grande sofferenza che attanagliano intere popolazioni, da cui si cerca di fuggire a tutti i costi. Quelle di cui parlava appunto Giulio Andreotti.

Da tutto questo non se ne uscirà con l’autoritarismo “Chiudere i confini riproduce sempre nuove crisi, nuovi morti in mare, nuova violenza di Stato lungo le frontiere fortificate o nelle zone di contenimento militarizzate. Guardare alle migrazioni attraverso la lente del concetto di “crisi”induce tuttavia a pensare le migrazioni come a qualcosa di eccezionale, come a un’anomalia causata da instabilità e catastrofi che si verificano in un altrove geografico e politico. Le migrazioni sono così destoricizzate e decontestualizzate dalle loro cause strutturali e i Paesi di destinazione condannati a replicare politiche destinate a fallire poiché appunto promettono risultati irraggiungibili. Più che insistere ossessivamente sulla rappresentazione delle migrazioni come crisi, si dovrebbe dunque forse cominciare a tematizzare la crisi delle politiche migratorie. Una crisi più profonda e strutturale che non può essere ridotta alle polemiche scatenate dai periodici aumenti nel numero di sbarchi”(Campesi 9.23).

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