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Storia

MASSACRI DELLE SS, NIENTE RISARCIMENTI

FRANCO GIANNANTONI - 09/06/2012

Rastrellamento a Molino di Quosa, nel 1944

Ebbene sì – potremmo sostenere con il cuore gonfio di rabbia e di dolore – aveva ragione il tenente generale delle Waffen-SS Max Simon, comandante della XVI Divisione Granatieri corazzati quando nell’estate del 1944, alla testa dei suoi uomini, insanguinò paesi e cascinali delle Alpi Apuane, in una marcia della morte scandita da appuntamenti giornalieri: 2 agosto, San Biagio, ventitre persone trucidate; 5 agosto, Asciano, cinque fucilati; 7 agosto, Borgo la Romagna, tre persone uccise e sessantanove rastrellate, fucilate dopo quattro giorni; 9 agosto, otto assassinati a San Rossore e cinque a Musigliano; 11 agosto, Molino di Quosa, sessanta civili massacrati; 14 agosto, quindici uccisioni a Nodica e nove a Migliarino; 19 agosto, tre vittime a Musigliano e undici a Pettori; 25 agosto, San Giuliano, cinque fucilati.

 Il 29 settembre Simon guidò l’attacco a Monte Sole contro la banda partigiana “Stella Rossa” del comandante “Lupo” poi sviluppatosi nella strage di Marzabotto di cui il maggior protagonista fu il maggiore SS Walter Reder, condannato all’ergastolo, non graziato dalla popolazione di Marzabotto nel 1967 dopo un referendum (duecentoottantadue voti contrari e quattro a favore), messo in semilibertà dal Tribunale Militare di Bari nel 1980 “perché la criminalità di Reder va ritenuta occasionale e contingente, legata al fattore scatenante la guerra” e, infine, scarcerato anticipatamente dall’ineffabile presidente del Consiglio Bettino Craxi il 23 gennaio 1985.

Il 20 novembre 1946 in un memoriale difensivo, Simon scrisse fra l’altro “che la lotta contro i partigiani era per noi tedeschi semplicemente una misura difensiva. Io credo di poter rispondere di quanto è accaduto all’interno della 16a Divisione Meccanizzata in questa battaglia difensiva”. Secondo il Tribunale militare britannico le vittime del reparto di Simon furono millecento, in maggioranza donne e bambini. Il 26 giugno 1947 Simon fu condannato al capestro; la sentenza, in un primo tempo confermata, venne poi, sotto la spinta diplomatico-politica del ministro inglese della Guerra Emmanuel Shinwell, tramutata in quella dell’ergastolo, pena poi ridotta a ventun anni fino a che il boia fu salvo. Fu l’ultimo atto compiuto dalla magistratura militare inglese che trasmise da quel momento la competenza a giudicare ai Tribunali militari italiani che avevano ritrovato la loro autonomia giurisdizionale.

Quel fascicolo processuale, rubricato sotto il numero 1957 del Registro generale della Procura militare di Roma, con indicati con chiarezza i nomi degli ufficiali esecutori delle varie stragi (maggiore SS Warcher, tenente Fischer, capitano Rachel, oltre a Simon e Reder quali comandanti), “archiviato provvisoriamente”  il 16 gennaio 1960 (figura giuridica inesistente nel nostro codice!) per ordine del procuratore militare generale Enrico Santacroce, dopo lo sciagurato accordo politico del 1956 fra il ministro degli Esteri Gaetano Martino e quello della Difesa Emilio Taviani, per non turbare in quel momento storico i rapporti con la Germania Federale, in fase di riorganizzazione del suo esercito in funzione antisovietica, ritornò alla luce con la nota, stupefacente scoperta nel 1994 del famoso “Armadio della vergogna” a Palazzo Cesi di Roma. La verità dei massacri delle Apuane era dentro lì con altri seicentonovantaquattro fascicoli processuali già “istruiti” e lì era rimasto per oltre mezzo secolo.

Aveva dunque avuto ragione il barbaro Simon di sterminare impunemente centinaia di innocenti perché dopo la beffa di una condanna finita nel nulla (così come per gli altri sodali di morte), il 30 maggio scorso la Prima sezione penale della suprema Corte di Cassazione, in difforme parere di una passata sentenza, ma in linea con l’orientamento espresso nel febbraio scorso dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja (sollecitata dal governo di Berlino), ha negato il diritto al risarcimento, da parte della Germania, per i familiari delle vittime delle rappresaglie compiute dalle truppe di Hitler sul territorio italiano durante la Seconda Guerra Mondiale.

Si attende la motivazione per capire meglio ma si è già capito troppo.

La memoria è stata imbrattata due volte. Una prima volta con la pluriennale dimenticanza per favorire “politicamente” gli assassini, ora con il “no” del Cancellierato germanico e dell’Europa. Ma cosa mai vogliono questi signori familiari, si saranno chiesti? Ma non lo sanno che non c’è più un euro neppure per i vivi!

Con il suo giudicato la Corte di Cassazione ha cancellato il verdetto della Corte militare d’Appello di Roma del 20 aprile 2011 con la quale la Germania era stata dichiarata responsabile civile dell’eccidio compiuto nell’agosto del ’44 nella provincia di Massa Carrara.

Ai parenti delle circa duecentocinquanta vittime era stato riconosciuto nel processo di primo grado apertosi al Tribunale militare di Roma qualche anno dopo il ritrovamento del fascicolo nell’ “Armadio della Vergogna”, un risarcimento di circa cinque milioni di euro. Alla Regione Toscana, costituitasi parte civile, insieme ai Comuni oggetto della rappresaglia nazista, era stata accordata una provvisionale di quarantamila euro. La stessa cifra era stata liquidata quale acconto, su un totale da determinare, anche alle amministrazioni comunali di Fivizzano e di Fosdinovo,

Valga dinanzi allo sconcertante verdetto, il commento dei familiari delle tredici vittime della strage di Borgo Ticino il 13 agosto 1944 per mano nazifascista (Kriegsmarine e X° Mas) il cui processo è in corso davanti al Tribunale Militare di Verona. “Siamo qui – ha dichiarato la signora Giovanna Gazzetta di Sesto Calende – non per ottenere denaro e questo è noto ma per avere, dopo quasi settant’anni, una sentenza di verità e di giustizia”.

Anche in questo caso il fascicolo, rubricato con il numero 1994, perfettamente “istruito” con i nomi dei responsabili a cominciare dal capitano Khramar, regista dell’eccidio, venne messo da parte per “ragion di Stato”.

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