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Zic & Zac

QUALE UNITÀ

MARCO ZACCHERA - 17/11/2023

4novembreRicordo bene il 4 novembre 1968. Era il 50° anniversario della Vittoria e molti reduci vivevano ancora. Per festeggiarli gli era stato concesso il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto” e una modesta pensione (anche per allora) di 60.000 lire all’anno. In casa si festeggiava mio nonno Felice, caporalmaggiore del genio pontieri.

Purtroppo lo Stato non fece in tempo a consegnare per l’anniversario né la pensione (che giunse l’anno dopo) né la piccolissima medaglia d’oro con nastrino tricolore che accompagnava la pergamena del cavalierato da consegnare ai superstiti, tanto che i miei gliene regalarono una copia, quella che ancor oggi conservo come prezioso ricordo di mio nonno.

Da allora il tempo trascorso è più che raddoppiato e la prima guerra mondiale è vagamente ricordata ai ragazzi solo attraverso i libri di storia. Il 4 novembre ho assistito davanti al monumento ai caduti all’annuale cerimonia.

Guardavo le autorità schierate, il picchetto, labari e gonfaloni, ma dietro non c’era nessuno.

Non c’erano la gente, i ragazzi, neppure qualche scolaresca come quando eravamo bambini e ci davano una bandierina tricolore da tenere in mano: nessuno.

Il 4 novembre è ufficialmente la “Giornata delle forze Armate e dell’unità nazionale” ma – ridotte le forze armate – dov’è l’“Unità Nazionale” e – soprattutto – come viene coltivata?

Certamente è positivo che nessuno oggi si sogni più di sparare agli austriaci ed abbiamo tutti in tasca il comune passaporto europeo, ma mi sembra si sia anche dissolto non tanto l’aspetto “nazionale” – che salta fuori al massimo per le partite di calcio degli azzurri – ma anche il senso di appartenenza, di coesione, di comunità.

Questo non è un bene, ma il risultato dell’aver confuso per molti anni non solo il concetto di nazione con il nazionalismo, ma anche per aver voluto abbattere scientemente ogni simbolo, ricorrenza, sentimento, principio di appartenenza ad una comunità. Così il senso del dovere, di compartecipazione, di reciproca appartenenza nel bene e nel male ad un popolo, si è volatilizzato e si è perso.

Si può dire che ciò è avvenuto forse perché questo era un obiettivo della fu sinistra italiana, cui rispondeva una destra che lo ammantava di eccessivo nazionalismo e quindi progressivamente usciva dal tempo, fatto sta che il concetto di appartenenza si è perso. Cosa in cambio ci abbiamo guadagnato? Forse nulla e quindi ci resta solo la perdita.

Appartenere ad un popolo, ad una società, ad una comunità che abbia radici in un preciso territorio sia cittadino, regionale ma soprattutto nazionale impone non solo di accettarne le leggi, ma anche di sentirsi compartecipe alla sua crescita e alla sua evoluzione e – vocabolo desueto – capire che a volte per ottenerlo servono sacrifici.

Quei nomi scritti su tutti i monumenti ai Caduti d’Italia e d’Europa rappresentano un esempio estremo di sacrifico e di solito non sono nomi di eroi, ma di ragazzi spinti nelle trincee a sparare ad altri ragazzi “con la divisa di un altro colore”, come il Piero cantato da Fabrizio De André.

Certamente c’erano e ci sono tanti altri modi di “servire” il proprio paese, quello che si chiamava “Patria” nome oggi desueto e nascosto, celato quasi con diffidenza, timore, sospetto.

Eppure una comunità cresce e si cementa proprio soprattutto nel momento del sacrificio che – come i doveri – si tenta appunto di nascondere ed esorcizzare all’insegna del futile, del sorriso forzato, dei consumi inutili pur ammantati spesso di pseudo modernità ecologica od ambientale. Siamo strani: si litiga o si discute di riforme costituzionali, di presidenzialismo o premierato, di parlamentari eletti o meno dai partiti ma non si discute di noi, degli italiani.

Pensieri che in un giorno grigio e in una piazza semivuota scivolano via come le foglie di quest’autunno arrivato di colpo, eppure ti lasciano in bocca un sentimento amaro, di dubbio e di tristezza.

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