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Cultura

UN SECOLO FA, AL GRAND HOTEL

SERGIO REDAELLI - 22/06/2012

Il Grand Hotel Campo dei Fiori, oggi (foto Luca Monestier)

Croce e delizia del Parco del Campo dei Fiori, il Grand Hotel Tre Croci compie cent’anni e li dimostra tutti. Inaugurato il 20 giugno 1912 dall’architetto Giuseppe Sommaruga, principe del Liberty varesino, fu meta per oltre mezzo secolo del turismo internazionale d’élite ma è oggi ridotto a malinconico supporto di una foresta d’antenne televisive, ripetitori e parabole per la radiotelefonia che producono smog elettromagnetico e un inquietante ronzio sopra la città. Sul suo futuro si sprecano le ipotesi e si esercitano le fantasie: farne un casinò, una scuola alberghiera? Ritornare all’antica vocazione di hotel? O ricavarne una scuola di polizia lumbard come ipotizzò l’ex ministro Bossi? Già, ma erano altri tempi…

Con le sue raffinate decorazioni, le soluzioni ardite, i ferri battuti di Mazzuccotelli, la funicolare e le splendide ville circostanti, il Grand Hotel figura nel catalogo che l’associazione Réseau Art Nouveau Network di Bruxelles ha recentemente pubblicato inserendolo tra i luoghi più significativi dello stile floreale con Vienna, Barcellona, l’Avana, Palermo. Ma è anche indicato come “luogo da salvare” dal FAI, il Fondo italiano per l’ambiente, con migliaia di segnalazioni che ne denunciano il degrado. Una raccolta di firme lanciata su Internet per restaurarlo ha ottenuto centinaia di adesioni e un’iniziativa analoga è partita su Facebook. Chiuso dal 1967, l’albergo è lì a testimoniare, con la sua “cresta” di guglie, come si possa trascurare uno dei più bei monumenti della Bell’Epoque.

A cavallo tra l’Otto e il Novecento, la città aveva una rete turistica di funicolari, tramvie, ristoranti e grandi alberghi per una raffinata clientela altoborghese. La stagione lirica e le corse ippiche attiravano schiere di artisti, nobili e ricconi. La clientela del Grand Hotel era raffinata ed esigente. Signori in marsina con il monocolo e la gardenia all’occhiello giungevano al braccio di signore pallide ed eleganti, con il cappello a veletta. “Varese, Casa di primissimo ordine, millecento metri sul livello del mare, stagione da giugno a settembre”, strillava la pubblicità sulle guide turistiche. La sera, nei saloni scintillanti di cristalli si danzavano la polka e la quadriglia e si cenava alla carta, secondo le nuove regole dello chef Auguste Escoffier: potages e consommè alla francese, filetti di trota del lago Maggiore, salsine e Champagne.

Chi l’ha visitato sa che è un’esperienza emozionante, un po’ come immaginare d’ispezionare il relitto del Titanic. I saloni vuoti sono incorniciati dai grandi oblò liberty e il sole filtra a fatica nel reticolo delle stanze. Corridoi deserti, qua e là detriti e pezzi d’intonaco caduti a terra; porte e finestre sbarrate, poltrone e piattaie, madie e comò sono accatastati negli angoli. Una vecchia lista dei vini, scovata in un mercatino, rivela una cantina per palati e tasche robuste, Chateau Margaux e Chateau Lafite di Bordeaux, Chablis e Chambertin di Borgogna (il preferito da Napoleone) e un esercito di champagne: Monopole Heidsieck Demisec e Dry Brut, Mumm Extradry, Cordon Rouge e Reserve 1928, Veuve Clicquot Ponsardin, Piper Heidsieck. Poi gli spumanti italiani, i rossi Barolo e Barbaresco, i bianchi Frascati e Orvieto, Passito Montechiaro d’Asti, Marsala, Moscato di Siracusa e vini di Spagna, del Reno, della Mosella.

Per le signore, la lista dei liquori soft offriva anisette e cordiali, cherry e maraschini, spiriti al marzapane e alla menta. Di sera, per la consueta partita alle carte nella saletta appartata accanto al biliardo, compassati signori sorseggiavano whisky, rum e cognac francese invecchiato fino a ottant’anni. Nelle cucine del seminterrato troneggia ancora oggi la gigantesca stufa di ghisa, alimentata a legna e carbone, con l’imponente cappa di ferro a cupola che ricorda la Stazione Centrale di Milano. In un angolo il forno scaldavivande delle fonderie Valsecchi, più in là l’enorme scolapiatti in legno con infinite scansie. Tutto sembra avere le dimensioni della casa di un gigante.

Siamo nel 1967, l’anno della chiusura. Dopo oltre mezzo secolo d’attività, l’albergo è costretto a dare forfait. Colpa del ridimensionato flusso turistico, scrivono i giornali. Al Grand Hotel lavorano trentasette dipendenti, undici stagionali. I depliants parlano di centodieci camere da letto (mentre negli anni Trenta le stanze erano duecento, solo settanta con bagno, riscaldamento e telefono). L’offerta si è arricchita con l’american-bar, la sala restaurant, i saloni per le conferenze, il parking, il tennis e il giardino. I prezzi non sono popolari: in alta stagione – luglio e agosto – la pensione completa costa da 5.000 a 6.500 lire al giorno, extra la piccola colazione (500 lire), il riscaldamento (400 lire) e un letto in più (1.200 lire). Sono previste riduzioni del 20% per i bambini fino a sei anni e per gli chaffeurs. Tutto lascia credere che l’albergo abbia solidi progetti di rilancio. Il 15 maggio, il direttore Liliano Del Rosso scrive ai clienti una lettera prestampata in cui annuncia le novità stagionali per conto della Società Grandi Alberghi Varesini. Ma è ormai troppo tardi. Si chiude.

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