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Società

NON PROFITTARSI DELL’UOMO

MASSIMO LODI - 22/06/2012

Qualche giorno fa a Busto Arsizio come a Gallarate qualche giorno prima. Come altrove, sul nostro territorio (anche sul nostro territorio) nel passato recente. L’operaio non pagato da mesi che sale su una gru e minaccia di buttarsi, se finalmente non gli danno quanto pattuito. Nell’ora della protesta disperata d’un poveraccio, arrivava sui banchi delle superiori la traccia di uno dei temi d’italiano per la maturità: “Ammazzare il tempo”, annotazioni cronachistiche di Eugenio Montale. Nel cantiere succedeva il contrario: è il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, che ti ammazza, se non hai di che vivere dopo esserti speso per guadagnartelo. Annotazioni cronachistiche anche queste, la firma non ha importanza. Ogni essere umano è una firma.

Nell’imperversare di argomenti alternativi sulla crudele ribalta mediatica, ci era un po’ sfuggito (forse un po’ tanto, e colpevolmente) quello della drammaticità del lavoro. Il lavoro che manca, la fatica che non viene pagata, la crisi che non è un’esagerazione speculativa e invece un’attendibile realtà. Non vale discutere –come purtroppo si discute – dei modi d’una protesta, accettabili o meno. Vale riflettere sulla sua valenza. Non nello specifico d’una vicenda, ma nell’insieme di un’epoca. L’epoca sciagurata della depressione economica (non solo economica) che stiamo purtroppo traversando e di cui non s’intravede l’uscita. Al contrario, s’avverte la possibilità d’entrarvi sempre di più.

Una settimana fa il ministro dello Sviluppo Passera stava ad Assisi, a discutere di mercati finanziari e di dottrina sociale della Chiesa. I frati del Sacro Convento gli hanno ricordato che esiste una sola ricetta per situazioni come l’attuale, e la ideò San Francesco otto secoli fa: rimettere l’uomo al centro del mondo. Anche del mondo produttivo. Specialmente al centro di questo mondo produttivo. L’industrializzazione e la postmodernità han cambiato posizione all’uomo, collocandolo alla periferia del bene considerato più importante, il profitto. Una sciocchezza. Anzi, un delitto. E comunque un errore, se si vuol lasciar perdere la sostanza etica, il riflesso spirituale eccetera. Settanta frati da venti Paesi del pianeta hanno concordato sulla necessità di recuperare il ruolo naturale dell’uomo nel consesso degli uomini. D’accordo anche il ministro. Bisognerebbe che lo fossero altri e numerosi, nel ramo dell’imprenditoria, nel filone degli affari, ovviamente nell’universo della politica.

Nessuno ignora le difficoltà del momento. Neppure i religiosi, che non a caso han regalato a Passera la croce di San Damiano, per rendere più lieve il peso della sua responsabilità. Però temperare il capitalismo con la fraternità, e in particolare nel frangente in cui il capitalismo è in affanno e la fraternità rischia d’andarvi, diventa ormai la conditio sine qua non per uscire dall’incubo. Fraternità nell’anno 2012 si traduce così: privilegiare il bene comune, non il profitto individuale. Ed è lo Stato a dover sorvegliare il rispetto delle regole nell’attuazione del bene comune, cosicché non ci tocchi raccontare storie come quelle di Busto Arsizio, di Gallarate e di luoghi d’una infinita geografia. Raccontarle e partecipare dell’angoscia di chi le interpreta non per ammazzare il tempo, ma per non farsene ammazzare.

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