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Attualità

BILANCIO DI UN’AVVENTURA AMERICANA

PIETRO PIZZI - 29/06/2012

Un uomo giudizioso fa sempre un bilancio valutativo di quello che ha vissuto. Io non mi ritengo giudizioso, ma sono ben lieto di fare un bilancio di quello che ho avuto modo di incontrare, di vivere e di vedere, venendo in questa insolita e a tratti inquietante terra americana.

Gli spunti degli ultimi giorni sono innumerevoli, a partire dal mio lavoro di ricerca che è ormai agli sgoccioli. Nonostante la necessità di prepararmi al mio rientro in Italia a Milano, questi ultimi giorni si presentano come una novità, come l’ennesima occasione per riassaporare l’originalità di quello che c’è da questa parte dell’Oceano e che so di poter ritrovare venendo in Italia.

Uno dei pensieri che più mi sorprendeva in questi giorni è che non concepisco questo mio nuovo, ennesimo spostamento, come un ritorno nella madre patria. Assolutamente. Se un uomo cresce, vivendo intensamente e trascorrendo un breve tempo in un luogo, nella coscienza di sé stesso, allora inevitabilmente si dovrà accorgere che rispetto a ciò che era prima è definitivamente stato cambiato dalle circostanze. È la condizione dell’uomo. A maggior ragione se si tratta di un uomo che abbia un briciolo di fede nel Dio cristiano, ed in questo senso tale uomo vivrà il mutamento senza nostalgia, ma come memoria di un avvenimento imperturbabile che scandisce il divenire temporale. Non si tratta più di un ritorno a un’abitudine, ad una routine, come spesso ci capita di percepire la nostra esistenza quando le circostanze permangono invariate per lungo tempo. Si tratta piuttosto di un “venire in Italia”, che ha tutto il gusto e la meraviglia della prima volta. Questo risulta possibile solo per chi ha vissuto profondamente radicato nel presente, come già mi è capitato di affermare nelle mie osservazioni in “Nietzsche ed il sogno americano”.

Chiaramente una tale disponibilità, che il cristiano chiamerebbe grazia, risulta spesso molto lontana da questa società caratterizzata da un forte capitalismo, proprio per il fatto di essere così profondamente radicata nella propria tranquillità borghese. Contro una tale tranquillità non ho alcun risentimento particolare. Mi sembra di poter notare, però, che sia la tomba dell’umanità. È una terra di grandi contraddizioni questa. Da un lato c’è un attivismo sportivo e lavorativo, che punta alla perfezione ed all’eccellenza del singolo individuo, in contrapposizione ad una certa trascuratezza dei rapporti umani, che si schiantano contro un formalismo relazionale tendenzialmente moralista e spesso frustrante. Così, per non pensarci, ognuno risolve con una bella corsa. Magari in bicicletta.

È un rischio che ho corso anche io nelle mie quotidiane pedalate per andare in università, percorrendo quei 34 km, tra andata e ritorno, che separano casa mia dalla CUA. Un rischio del genere lo corriamo tutti, prima o poi. Ma all’uomo col briciolino di fede questo isolamento non può che aprire un’ennesima ferita nella propria umanità, spingendolo a spalancarsi a quello che ha intorno anche nella quotidiana pedalata in mezzo ai boschi e accorgendosi di tutto quello che ho appena descritto. In definitiva l’Americano è un amante della comodità, dell’aria condizionata e dell’onnipresenza di Internet. Ma allo stesso tempo è un uomo che aspetta, nella sua frustrazione individualista, una breccia che qualcuno possa provocare, schiantandoglisi addosso. Un uomo caratterizzato da un forte patriottismo, ma con un grande desiderio di poter incontrare qualche cosa di diverso e di insolitamente più grande della realizzazione del proprio egocentrismo coltivato dall’utopico nietzscheiano sogno del “self-made man”, ovvero dell’uomo che si costruisce da solo. Noi italiani, e noi cattolici in specialissimo modo, questo atteggiamento non potremo mai capirlo fino in fondo, un po’ perché siamo attaccati alla nostra lingua ed alla nostra cultura, così ricca delle prove che la storia ci ha chiesto, e un po’ perché, diciamocelo francamente, perché abbiamo avuto modo di vivere sempre l’esperienza della Libertà con la “elle” maiuscola, possibile solo nei rapporti umani e che è ben altro rispetto al semplice libero arbitrio, al semplice “voglio perché voglio; quindi scelgo io”.

In ultima istanza, l’uomo col briciolino di fede, che ormai si spera sia cresciuta un poco, riconoscerebbe alla radice di questa libertà tutta cattolica e per questo tutta italiana, la libertà di Cristo, il primo ad essere così legato a ciascun uomo al punto da offrire la propria vita in sacrificio pur di garantire la realizzazione di ciascuno. La storia americana invece, come ho avuto modo di osservare nella mia prima riflessione sull’America, non può sapere di che cosa si tratta, perché quel Gesù così umanamente e carnalmente coinvolto nell’esistenza del dell’uomo cattolico è stata intenzionalmente dimenticata nella vecchia casa Europa dall’uomo calvinista protestante. In ultima istanza, o uno tenta di liberarsi da solo, scegliendo quello che crede che realizzerà la propria esistenza, oppure uno riconosce di essere già stato liberato da un Altro, che lo coinvolge in un’appassionata avventura che non invecchia e non invecchierà mai perché sempre nuova.

Saluto quindi quell’indiano dorato, posto sulla cima del Capitol in centro a Washington D.C. all’insegna dell’ipocrisia protestante, augurandogli un giorno di poter scendere e di poter tornare un giorno a correre insieme nella libertà delle infinite praterie del Far West.

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