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Attualità

DA UNA LACRIMA SUL VISO

LUISA NEGRI - 07/07/2012

“Da una lacrima sul viso – cantava negli anni sessanta Bobby Solo – ho capito molte cose”.

Pur messo da parte il romanticismo retrò da signorinella pallida e dolce dirimpettaia di Achille Togliani, quello della pensée rinvenuta in un vecchio libro di latino che faceva innamorare e commuovere tutte le signore e signorine del dopoguerra, il sentimento suscitato da una lacrima continuava a valere ancora qualcosa nel ‘64.

Il mondo guardava, con speranza mista ad apprensione, alla nuova frontiera evocata da Kennedy, assassinato l’anno precedente, e l’idea del sogno americano dilagava, parallelamente all’invasione in Vietnam. Il boom economico accendeva, nei paesi distrutti dalla guerra come il nostro, nuove emozioni. Quelle canore erano ormai perdutamente incamminate dietro la bandiera rock dello svettante ciuffo di Elvis e dei capelli a caschetto degli scarafaggi di Liverpool. Eppure la lacrima discreta di Bobby rimase nel cuore di tante adolescenti di allora. Il nostrano Presley non vinse Sanremo, ma vinse la guerra delle vendite e del gradimento.

Perché le lacrime sono lacrime, fatte di quel liquido amaro e salato che scorre sulle facce di tutti, dei re come dei poveri, dal primo giorno fino all’ultimo di vita. Il loro sapore lo conosciamo bene. Dalla nascita all’agonia, dal primo amore fino alla morte, le lacrime sono il sangue trasparente che riga il quotidiano dolore e misura l’umano diritto alla commozione.

Sono, scriveva Hermann Hesse, lo sciogliersi del ghiaccio dell’anima.

D’accordo con Hesse, non può esserci piaciuta la demonizzazione del pianto di chi ha perso gli Europei. Perché tacciare di immaturità il pianto da bambino e senza freni di Bonucci, quello appena abbozzato, da uomo grande, di Pirlo, quello appartato, da gladiatore solitario, di Balotelli? Eppure qualcosa ha disturbato in qualcuno l’emozione a vista della squadra azzurra, qualcosa ha mosso parole – e più d’una prevenuta penna della carta stampata – contro gli occhi annacquati di lacrime dei giocatori.

Come nei vecchi asili di una volta, nelle scuole austere d’antan dei nostri nonni, è corso il diktat: vietato piangere e commuoversi. Pare che nel nostro Paese le lacrime non piacciano più, siano un inaccettabile reperto da vergogna, un insulto alla virilità, un vizio da tenere nascosto.

Ricordate la Fornero, lacrime false per qualcuno, lacrime da coccodrillo per altri , lacrime da femminuccia, da donnetta per altri ancora? Ne abbiamo già scritto qui e non ci vogliamo ripetere.

Ma siamo sicuri che le lacrime siano un elemento liquido tanto disdicevole? E c’è dell’altro in quella levata di scudi contro gli azzurri? E se avessero dato fastidio le troppe bandiere bianche, rosse e verdi ai balconi, la lettera carica di entusiasmo di Napolitano, l’entente tra Mario Monti e il cittì della nazionale Prandelli, la sua maschera composta e gentile, di serena malinconia, che sa guardare avanti, serena proprio come quella del premier che a Kiev ha voluto esserci, fresco di vittoria come la nostra nazionale sulla Germania? A pensar male non sempre si fa peccato.

Ma forse, ancor più, quel che non si perdona oggi è l’essere umani, l’essere sinceri, l’essere saggi, l’essere umili per esempio come un cittì che accetta di smentire il suo mestiere e si prende la responsabilità d’aver sbagliato formazione di fronte a un possibile sgarbo a chi tanto aveva dato in quel più che dignitoso torneo. Abituati come si è stati (e ancora in troppi si è) alle facce di plastica, alle rughe soffocate dal bisturi, alle parole menzognere, ai latrocini partitici, alle finte pulizie con le finte scope di finti spazzini – tutto accettato negli anni senza fiatare, tutto ribaltato e annullato, in un vizio ripetuto all’infinito, con occhio asciutto, come non fosse mai successo nulla – allora non è strano constatare che il vedere qualcuno piangere possa suscitare qua e là irritazione.

Ma la vera vittoria oggi come ieri sta invece, più che nel bottino dei goal messi a segno nel personale campionato, nell’essere capaci ancora di commuoversi e di confrontarsi con sé stessi. E di riconoscere, anche nelle umane manifestazioni di fragilità, di chi per mestiere è pur abituato oggi a perdere e domani a vincere, lo specchio mutevole ma reale della vita. Che oggi ti premia, ma domani può punirti.

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