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Attualità

CHI CI ASSICURA CHE COSA

MASSIMO LODI - 13/07/2012

Nella saletta d’attesa dell’ambulatorio ospedaliero la chiacchiera di circostanza dà una sgrullata all’afa, che incombe tignosa perché manca l’aria condizionata. L’argomento non è solo l’anca artrosica della vecchia china sul bastone o la vacanza tra le fraulein di Rimini progettata dal piastrellista col braccio al collo. L’argomento è l’incertezza. La perplessità e il dubbio. L’incognita e il sospetto. Torneremo qui, per il controllo di cui avremo bisogno? Oppure dovremo andare da un’altra parte, e chissà dove sarà quest’altra parte? E poi: pagheremo di più, e quanto di più? E non è che la storia dei traslochi delle assistenze sanitarie e dei prelievi di quattrini sarà un infinito menar torrone? Chi ci assicura che cosa?

Nessuno, nella saletta d’attesa, è capace di rispondere alla domanda. Neppure il tizio in pantaloni denim e giacca bludipintodiblu, che ha l’aria d’essere un saputo delle cose del mondo, osa calare una parola di chiarezza. La chiarezza è demodé, confusione is fashion (sa capiss nagòtt, secondo la vecchia e il piastrellista).

Ecco il punto. Viviamo in una specie di selva dantesca, oscura di penombre finanziarie e sociali, della quale non s’intravede la segnalazione, sia pure di fioca luminescenza, dell’uscita. E la nostra quotidianità si fa di cartavelina, proponendoci (imponendoci) il precariato dello spirito. Mica solo a proposito di sanità. Pensate alle migliaia di dipendenti pubblici, per esempio quelli delle Province, che si sentono come i condannati alla “guillotine” robesperriana: sanno che il taglio è in arrivo, ma non come e in che modo taglierà. Gli dicono: tranquilli, salverete la testa. Però la testa, per salvarsi, dove andrà a sbattere? Più che dove: fino a dove? In quale luogo di coatto trasferimento? E con che prezzo da pagare per il trasporto?

Due giorni fa al Sacro Monte l’associazionismo varesino s’è riunito, per iniziativa del gruppo Floreat, allo scopo di studiare una strategia comune di fronte alla crisi. Lo muoveva la necessità delle formazioni del volontariato, sempre meno aiutate dalla mano pubblica. Poi l’obbligo morale di non disperdere un capitale umano accumulato nel tempo, e indispensabile all’offerta d’alcuni servizi essenziali. Infine il bisogno d’uscire dalla solitudine cui le circostanze costringono: solitudini individuali, e perfino solitudini di massa.

È come se si fosse verificato un default del senso d’appartenenza. Sapevamo d’appartenere a un sistema regolato da una serie di sicurezze, e ora non sappiamo più a che cosa apparteniamo. A che cosa apparterremo. Quasi che la nostra fosse la condizione d’una sorta di bosino di Higgs, particella infinitesimale (dio minore, absit iniuria) d’un divenire di cosmica volubilità. Potrebbe essere un tema per il festival del docufilm che Varese riserverà ai giovani, nell’autunno venturo. I giovani che sono portati all’ottimismo della volontà, e che si ritrovano circondati dal pessimismo dei conversari d’ogni giorno.

Forse ci vuole, prima che un piano di governo del territorio, un piano di ristrutturazione delle coscienze che abitano questo territorio: dargli un orizzonte dalla linea netta, smorzare le mortifere sentenziosità, restituire la fiducia nel futuro. Siamo in grande credito con la fiducia, come abbiamo dimostrato omaggiandola del disciplinato e milionario pagamento dell’IMU.

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