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Editoriale

IL GALANTUOMO CHE È IN NOI

MASSIMO LODI - 05/10/2012

Vittorio Emanuele II, il "Re galantuomo"

C’è una parola di cui non si pesca mai traccia nel discorrere mediatico. È una parola dolcemente antica. Una parola mestamente in disuso. Una parola ingiustamente considerata retorica. La parola è galantuomo, un sostantivo di sostanza. Citate un esempio recente (anche meno recente) di sua citazione: macché, cari amici, non si trova. Come se il galantuomo appartenesse a una specie estinta. O come se non c’importasse poi così tanto di citare il galantuomo. Un galantuomo. Alcuni galantuomi.

E invece no. Invece bisognerebbe dedicarsi a questo piccolo e utile esercizio di verità. A mancare non sono i galantuomini, è la voglia di celebrarne l’esistenza. Le occasioni non mancano. Scorrendo il sommario di questo numero del nostro giornale, ne incontriamo numerose. Quando leggiamo della vicenda di cui è protagonista l’agronomo Daniele Zanzi, destituito dalla presidenza della commissione paesaggio del Comune di Varese, il pensiero va all’impegno civico, disinteressato, entusiasta del personaggio. Uno che s’impegna al di sopra delle parti per la sua città e che l’ente municipale ha allontanato, dopo averne chiesto la collaborazione, adducendo ragioni d’incompatibilità che se fossero reali avrebbero dovuto impedire la chiamata dell’esperto all’incarico. Zanzi è un galantuomo perché leale di fronte alle proprie idee, e ne paga il prezzo.

Quando leggiamo, a proposito del caso Sallusti, di libertà di stampa messa in pericolo dalla giustizia (dedichiamo tre articoli all’argomento, in omaggio al nostro anarcoliberalismo), ci vien da dire che né la libertà di stampa né la giustizia sarebbero oggetto di discussione se in un Paese di galantuomini il reato di diffamazione non prevedesse anche la pena del carcere e i giornalisti scrivessero il vero anziché il falso. Soprattutto avessero la correttezza di scusarsi qualora gli succeda (può succedere) di sbagliare, e di minare la dignità delle persone. La probità intellettuale, prerogativa del galantomismo, lo dovrebbe imporre. Anzi: lo impone.

Quando leggiamo dello stato d’abbandono in cui versa il Grand Hotel di Campo dei fiori, la memoria va agli uomini che nella gloriosa epoca del Liberty fecero assai più che il loro dovere a beneficio della città. Avevano un’idea alta della missione pubblica, e non l’avevano perché albergo e funicolare  toccavano la quota dei mille e rotti metri: l’avevano perché il bene generale stava in cima alla concezione d’una Varese che fosse luogo collettivo. Fruito al meglio anche da chi stava peggio. Promuovere oggi un movimento popolare a sostegno del recupero d’un tale prezioso manufatto è rientrare in quel solco del galantomismo. È darsi da fare con meritevole umiltà anziché dirsi addosso un sacco d’inutilità.

Quando leggiamo d’una situazione simile che riguarda lo storico castello di Belforte, un altro gioiello del passato varesino, arriviamo a tirare le stesse conclusioni. Che poi si riducono a una, fondamentale: l’importanza, e anzi la necessità, di mobilitare le coscienze. Abbiamo la sensazione (quasi la certezza) d’avere dentro di noi coscienze impigrite, annoiate, disilluse. Coscienze che favoriscono la confusione tra ciò che non bisogna fare e tra ciò che bisognerebbe, ma si preferisce aspettare a fare. Coscienze alle quali non sono ignote le forme del galantomismo, ma riesce arduo darvi contenuto, quasi che il galantomismo fosse una prerogativa retrò e non anche attuale. È il vizio di voler rubricare la modernità come spregio del passato, ignorandone le virtù sopravvissute ai difetti. Eppure il tempo traversa le stagioni ed è galantuomo nel suo insieme, non bisognerebbe mai scordarlo.

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