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Attualità

FIORENZO MAGNI, IL GUERRIERO DELLA BICICLETTA

CESARE CHIERICATI - 26/10/2012

Ne parlava sempre con rammarico di quel mondiale varesino del ’51 che avrebbe potuto essere suo e invece andò, peraltro con pieno merito, al rivale e amico svizzero Ferdy Kùbler. L’occasione della vita sfumò negli ultimi trecento metri di corsa sul rettilineo tracciato dentro l’ippodromo delle Bettole, con l’elvetico che approfittò dell’incertezza dei tre italiani e scattò a doppia velocità per vincere a mani alzate. Una beffa al termine di un gara che lo vide protagonista di un inseguimento strepitoso: 5’45” recuperati in 45 chilometri. Fiorenzo Magni, animato da vero e proprio furore agonistico, sottraeva terreno ai fuggitivi a ogni colpo di pedale fendendo l’immensa folla assiepata lungo il circuito, un’impresa che confermava le sue straordinarie doti di passista di razza e di indomabile combattente. Nel suo studio luminoso dentro il concessionario di auto, gestito a Monza fino a pochi anni fa, mi disse che su quel bruciante insuccesso ebbe un peso decisivo il fatto che Alfredo Binda, commissario tecnico degli azzurri, fosse per regolamento fermo ai box. “Se ci fosse stato lui con la sua autorità e il suo senso tattico avrebbe determinato la vittoria di un azzurro. Invece non ci fu accordo tra noi ed ognuno puntò alla vittoria… e poi mi rimprovero ancora di non aver tentato il “colpaccio” nel finale convinto com’ero di poter vincere in volata, pensavo che Kùbler, in fuga dai primi giri, fosse stanco. È una sconfitta che non riesco ancora a digerire”.

Mancò il sigillo iridato sulla sua carriera, come del resto è accaduto a tanti altri grandi campioni, ma tutta la sua storia ciclistica dimostra, se ve ne fosse bisogno, che razza di atleta sia stato Fiorenzo Magni (7 dicembre 1920 – 19 ottobre scorso), toscano di Vaiano, paese della Val Bisenzio a dodici chilometri da Prato. Unico figlio maschio dovette lasciare presto gli studi per aiutare il padre titolare di una piccola impresa di trasporti. Allora lo chiamavano il “Magnino”. Coltivava la passione per la bicicletta e in cuor suo decise molto presto che sarebbe stato corridore confortato dal fatto che gli altri ragazzi della zona non reggevano la sua ruota, neppure quelli in possesso di mezzi assai più leggeri della sua pesante bici da passeggio. Grazie all’aiuto paterno arrivò la prima bici da corsa e l’esordio nella categoria “aspiranti” propiziato da Aldo Bini, eccellente corridore, pure lui pratese ma di Montemurlo.

Sotto la sua guida severa bruciò le tappe nelle categorie inferiori fino ad essere selezionato, fra i dilettanti, per i mondiali varesini del ’39 cancellati dall’imminente conflitto mondiale. Nel ’41, a vent’anni, il salto di categoria. Lo scritturò la Bianchi dopo averlo visto vincere, l’anno prima, il Giro della Provincia di Milano, gara open a cronometro a coppie. Affiancato da Vito Ortelli, altro cadetto molto promettente, si mise alle spalle Bartali – Favalli, Bailo – Zuccotti, Leoni – Bini e Coppi – Ricci. Seguirono tre anni di tribolazioni dentro e fuori l’agonizzante ciclismo del tempo di guerra. Nel ’45 le nozze a Monza dove si fermerà per tutta la vita. Due anni più tardi il ritorno alle corse dopo aver archiviato una controversa vicenda giudiziaria. Lui giovane di destra, con simpatie per la Repubblica Sociale di Salò, era accusato di aver preso parte all’eccidio di Valibona, una località del pratese dove si consumò un sanguinoso episodio della guerra di Liberazione in Toscana. Al processo decisiva fu la testimonianza di Alfredo Martini, il compagno di pedale di idee opposte alle sue, amico di tutta la vita. La stagione ’47 gli regalerà molto fatica – era ingrassato – e due vittorie la più prestigiosa delle quali fu la Tre Valli Varesine conquistata con una volata furba, al limite del regolamento. L’anno della sua definitiva consacrazione arrivò lungo le strade del Giro d’Italia del ‘48 che ancora lambivano fondali di macerie. Divenne il “terzo uomo” approfittando dell’arcigna contrapposizione tra Bartali e Coppi. Nel tappone dolomitico Magni e la sua squadra beneficiarono di qualche aiuto non proprio regolamentare. Sul Pordoi era infatti entrata il funzione la compagnia della spinta. I direttori sportivi avversari inoltrarono un reclamo. Venne accolto riconoscendo il “carattere preordinato” delle spinte. Al pratese furono tolti due minuti non sufficienti però a farlo scendere dal piedestallo rosa. Coppi, vincitore della tappa, e la Bianchi tutta presero cappello, l’indomani non si presentarono al via. Il Vigorelli, dove si concluse il Giro, incoronò Magni ma non furono certo tutti applausi. Magni rivincerà in maniera indiscutibile e autoritaria nel ’51 e d’astuzia nel ’55 grazie a un’imboscata ciclistica tesa, in combutta con Coppi, ai danni di Gastone Nencini che due anni dopo vincerà il Tour.

Fortissimo nelle gare a tappe (nel ’50 perse il Tour per il ritiro della squadra italiana oggetto, sui Pirenei, di gravi intemperanze di gruppi sciovinisti francesi, ritiro pare sollecitato da Bartali), Magni risultò addirittura devastante in numerose corse in linea, un autentico guerriero del pedale. Su tutte il Giro delle Fiandre, la prestigiosa gara belga che lo vide trionfare per tre anni di seguito con condizioni climatiche avverse: nel ’49 in volata sulla coppia di campioni locali Ollivier e Schotte, in solitaria nel ’50 e nel ’51 dopo aver fatto il vuoto sul muro di Grammont, l’erta di 850 metri con pendenza media del 9,2%, posta a pochi chilometri dal traguardo di Meerbeke. Magni è ancor oggi l’unico corridore al mondo ad aver trionfato per tre volte consecutive nella classica del Belgio, un primato che gli valse l’immaginifico appellativo di “Leone delle Fiandre”.

Complessivamente nella sua carriera ha vinto 79 corse e ottenuto numerosissimi piazzamenti di prestigio. Ha vestito 24 maglie rosa al Giro e 9 maglie gialle al Tour, ha disputato 7 campionati mondiali, è stato primatista mondiale su pista dei 50 e 100 chilometri. Per tre volte è stato campione d’Italia.

Il passo d’addio nel ’56 con 6 vittorie in linea e un episodio ormai consegnato alla storia del ciclismo. Al Giro di Lombardia, l’ultima gara della carriera, Giulia Occhini, la Dama Bianca lo irrise scioccamente facendogli dall’auto il gesto dell’ombrello, una provocazione assurda che indusse il pratese a organizzare uno spietato inseguimento a Fausto Coppi lanciato, in compagnia di Diego Ronchini, alla conquista del suo sesto Lombardia. Raggiunto alle porte del Vigorelli, il campionissimo venne beffato dal velocista francese Dedè Darrigade. “Mai avrei spinto a fondo per raggiungere il Fausto che era un vero amico – mi disse – se quella signora là fosse stata al posto suo…”.

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