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Società

A TAVOLA CON LA RIVOLUZIONE

MASSIMO LODI - 26/10/2012

La surreale cena conviviale che si terrà a Cittiglio il 28 ottobre per i novant’anni della marcia su Roma annunzia l’ardita intenzione di mettere in tavola lo spirito rivoluzionario degl’italiani. Come se davvero uno spirito rivoluzionario fosse esistito all’epoca dello sciagurato evento, e non invece un restaurazionismo col trucco. Allora è bene ricordare qualcosa, per capire l’insieme.

Il 23 marzo del ‘19 nacquero a Milano i Fasci di combattimento, nucleo originario del futuro regime andato sotto il nome di Ventennio. L’iniziativa (essa sì) ebbe segno rivoluzionario, poi annacquato e addirittura stravolto. I governanti d’allora, e Giolitti più convintamente dei colleghi, fecero uso del nascente fascismo e in seguito ne vennero usati. I reduci di guerra, gli ex socialisti, i fuorusciti dal sindacalismo rivoluzionario, i repubblicani e il resto della variopinta comitiva che inneggiarono al “Programma di San Sepolcro” proposto da Mussolini furono ritenuti l’antidoto al pericolo bolscevico. Agrari e industriali convennero sull’opportunità di finanziare il movimento, che però crebbe più in fretta e di maggiori dimensioni di quanto ci si aspettasse. Il futuro Duce era un animale politico, fiutava i venti prima e meglio di chiunque, e si rivelò abile nel volgere a suo favore le esigenze di chi pensava di far la stessa cosa con lui.

Il fascismo arrivò a Roma, nei palazzi del potere, senza dover sovvertire lo Stato. Fu lo Stato a sovvertirsi, se così si può dire, da solo. La marcia sulla capitale avvenne per necessità di sceneggiatura (una sceneggiatura sgangherata) e l’attore protagonista viaggiò da Milano a Roma in vagone letto: un comodo che si volle concedere, perché all’arrivo il re lo attendeva per incaricarlo ufficialmente d’insediarsi alla presidenza del Consiglio. Questa legalissima investitura istituzionale venne chiamata rivoluzione in nome della retorica di cui abbisognavano le camicie nere. Ma di rivoluzionario non accadde nulla, com’era del resto – e com’è rimasto – nella tradizione del Paese. E difatti il fascismo non diede vita a una nuova Italia, si limitò a restaurare quella vecchia conferendole un po’ di greche, di prosopopea e di burbanza. Mussolini era benissimo sintonizzato con la psicologia dei più e capì per esempio che offrendo una divisa, un grado, uno zic (un’illusione) di potere a ciascuno, avrebbe tenuto in pugno tutti. Colse nel segno sino a quando non lo colse la scellerata idea d’entrare in guerra.

Il Duce si limitò ad essere rivoluzionario in qualche infiammato discorso mentre negli atti da presidente del Consiglio praticò una sostanziale restaurazione. Nato per combattere autorità e autoritarismo, il suo movimento (e poi partito) conseguì l’obbiettivo opposto. Lo Stato venne rafforzato (perfino i potenti segretari federali del PNF dovettero inchinarsi ai prefetti) e se ne ingigantì l’invadenza tra i cittadini che peraltro non ebbero, nella loro maggioranza, a dolersene: il regime s’affermò infatti grazie al consenso di gran parte degl’italiani. Per verità finale va aggiunto che in altri tempi, e fuori del recinto d’una dittatura, riforme come quelle dei codici e della scuola sarebbero bastate – insieme con le novità in tema di protezione sociale – per rappresentare un bene di qualità. Che fu invece sepolto dal tanto di male procurato dalla tirannia. A Cittiglio qualcuno lo ricorderà?

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