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Cultura

I CONFINI DEL BURDÈL

MANIGLIO BOTTI - 03/11/2012

ul “pedriò”…

Il trattino unisce meglio di ogni forte collante, la e congiunzione al contrario divide. Lo sanno bene gli autonomisti della Romagna, specie nel Riminese: se poco più a Sud si rese possibile la separazione tra l’Abruzzo e il Molise, una delle ragioni che determinò il distacco fu il fatto che nel dettato costituzionale il territorio primigenio era conformato appunto dalla dizione Abruzzo e Molise; non è così – a parte le differenze e le conclamate volontà autonomistiche – in Emilia-Romagna, dove la regione nasce sulla Carta dei padri della patria italiana con il trattino di unione. E hai voglia a protestare e a fare convegni. Ormai, ai tempi di Monti, non c’è più trippa per gatti. Il nostro risparmioso premier, che vorrebbe fare tutto di due uno, e mai più di uno due, la divisione regionale e amministrativa tra Emilia e Romagna non la prende nemmeno in considerazione.

Le proteste – a volte infiammate, altre volte soltanto intellettuali – rimangono. In Italia i vicini non si amano. Non è necessario andare fino in Emilia-Romagna. Qualche anziano varesino e varesotto ricorda ancora le sassate tra masnaghesi e santambrogini, tra quei di Luvinate e di Casciago, tra azzatesi e buguggiatesi, tra i ragazzi di Galliate e di Daverio… Insomma, l’elenco è lungo. La polemica politica e giornalistica in atto ai giorni nostri tra varesini e comaschi, là dove i primi non rinuncerebbero per nessun motivo alla loro provincia faticosamente conquistata ottantacinque anni fa ne è un ultimo esempio. La si potrebbe definire sindrome del campanile. Comprensibile. Ma non è sempre detto che due diversi siano meglio di uno o viceversa. I problemi forse sono altri.

Un altro tema di divisione e di contrasto fra territori – quelli della Lega ne hanno fatto una delle travi portanti del loro programma politico – è il problema delle lingue. Nel nostro caso dei dialetti e, più genericamente, delle parlate. Tornando all’Emilia… e Romagna, è stato pubblicato a Rimini qualche settimana fa un aureo libriccino di uno studioso colto e erudito e anche poeta, Vincenzo Sanchini, nativo di Saludecio (ma lui precisa subito: di Cerreto di Saludecio); si intitola “Li pèdghe”, ovvero le impronte, le orme. Il libretto, magistralmente illustrato da un bravo artista riminese, Fidenzio Basso, scultore e pittore, non ha retropensieri politici, e a onor del vero non è nemmeno in commercio: bisogna richiederlo agli interessati. Vi si analizzano alcune parole dialettali – molte della tradizione contadina – di cui ormai s’è perso uso e conoscenza, vi si raccontano storie e leggende, vi si parla di antichi personaggi, nessuno famoso, ma tutti amabili e interessanti.

Sanchini, per esempio, spiega che la dizione “burdèl”, in italiano ragazzo, fa addirittura da spartiacque territoriale tra l’Emilia e la Romagna. Già un poco a nord di Imola, la prima (e un po’ controversa) terra di Romagna, la parola burdèl non è più usata. Curiosa anche la poesia che l’autore – in strettissimo dialetto romagnolo – dedica alla parola burdèl: “Un da d’pio, da ‘na pureta, / già spusèd… p n avinturèta, / s l iva ‘n fjòl che l’arcnusìva / l era “bardus” po ch’ ij gìva: / un sumar ch’ l’è dvént burdèl / s el djalèt… ch’ l arcnès li stèl” (Uno che contava, da una poveretta, / già sposato… per un’avventuretta, / se aveva un figlio che riconosceva / era “bardus” poi che chiamavano: / un asino che è diventato bambino / col dialetto… che riconosce le stelle).

E cita ancora dottamente, il Sanchini, le origini della parola burdèl (in Umbria il ragazzo viene chiamato “bardascio”, che è poi la stessa cosa): “Dal latino tardo “burdus”, variante di “burdone” bardotto, incrocio di un cavallo con un’asina, con il suffisso –ellu. Dal significato di figlio illegittimo passa a quello di ragazzo come “bastèrd”, rispetto al quale viene sentito come più corretto perché i parlanti hanno perso coscienza del suo significato originario (G. Casadio)”.

Misteri dei dialetti e della lingua italiana (latino volgare), che si andò poi affermando, e che – secondo gli studiosi – sta sopra. L’insegnamento dell’italiano, tuttavia, è faticoso. E lo stesso Sanchini, in una conferenza aiutato da un’amica docente, ricordava il caso di quel maestro che per insegnare la lettera I fece vedere ai ragazzi un imbuto, e poi chiese: “Che lettera è questa?”. Un bambino prontamente rispose: “La P”. Appunto, dalla voce dialettale per imbuto Pidriòl. Fatto accaduto in Romagna. Ma si sarebbe potuto verificare anche nel Varesotto, perché anche qui – vedi il Parolario bosino di Gorini e Maggiora – nel nostro dialetto imbuto si dice “Pedriò”. Antiche derivazioni tardo-latine. Così distanti, il Varesotto e la Romagna, ma uniti. Almeno nel nome dell’imbuto.

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