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Editoriale

PIL E FELICITÀ PERCEPITA

LIVIO GHIRINGHELLI - 08/11/2012

L’Italia e l’Europa nel suo complesso vivono una grande crisi, risultato di una sfrenata speculazione, della globalizzazione finanziaria, di un mercato libero da ogni vincolo e senza regole. Per quel che direttamente ci riguarda le scelte pubbliche poi hanno sacrificato la crescita economica e l’equità tra le generazioni, a scapito del patto sociale, dovendo assistere da tempo a una lievitazione incontrastata della pressione fiscale. Difficile risulta conciliare giustizia sociale ed efficienza. A livello mondiale il capitalismo dimostra di non riuscire a trovare in sé i rimedi alla sua involuzione, il saccheggio del pianeta continua inarrestabile, la spirale consumistica determina il trionfo di una felicità precaria, in cui si annida un eterno disincanto. Lo spreco delle nazioni ricche risulta un insulto alla ragione e crea gravi squilibri nella distribuzione del reddito tra i continenti. Si devasta l’ambiente, mettendo in pericolo le condizioni stesse della nostra sopravvivenza (inquinamento, deforestazione, esaurimento graduale delle risorse energetiche senza valide contropartite ecc.). Si pensi tra l’altro che la popolazione sulla terra da 5,3 miliardi nel 1992 oggi ha già superato i 7.

Nell’istituire un rapporto con un’adeguata corrispondenza agli autentici bisogni e necessità della vita, che privilegino sempre rispetto e promozione della persona, libertà e solidarietà, oltre che il benessere economico, si cerca di individuare per ogni Paese il criterio del PIL (prodotto interno lordo) come indicatore fondamentale di progresso e di soddisfazione. È il PIL che tradizionalmente ha determinato il criterio di appartenenza di un Paese al Direttorio mondiale rappresentato dal G 7- G 8. Ma si tratta di una misura grossolana, che non tiene conto della distribuzione di quanto prodotto, non considera l’evoluzione delle disuguaglianze e si fonda solo sul valore delle merci che passano tramite il mercato, escludendo il lavoro domestico e l’economia sommersa. È uno strumento puramente quantitativo, che non misura la qualità dei prodotti, senza contare che oltre una certa soglia gli aumenti risultano inefficaci e ininfluenti sulla felicità delle persone. Di qui la necessità di ricorrere all’economia comportamentale, che valga ad elaborare la sintesi tra aspetti materiali e aspetti psicologici. Bisogna assumere nel conto le componenti spirituali e culturali del benessere.

Se i beni di consumo soddisfano un piacere immediato, che decresce rapidamente con l’utilizzo, così non è di quelli che si riconducono alla creatività dell’uomo, cioè alle componenti culturali e relazionali: in questo campo la soddisfazione cresce con l’uso, anziché diminuire, pur risultando più elevati i costi di attivazione. Indici significativi di sviluppo sono da ravvisare nella salute come speranza di vita, nell’accesso alla conoscenza (forti sono i legami tra disponibilità di reddito e indicatori di salute e di istruzione), in un livello decoroso di vita nel quadro di un benessere economico sostenibile. Mentre si tiene conto anche di fattori negativi quali i danni all’ambiente e alla salute, fattori positivi sono ad esempio la ricerca, la bonifica di un’area inquinata. Ed entrano nel discorso elementi di reciprocità, relazionalità e valorizzazione delle virtù civili. L’Italia purtroppo nel 2011 ha fatto registrare solo il 25° posto nel PIL pro capite secondo il Fondo Monetario Internazionale (24° per quanto concerne l’ISU (indice di sviluppo umano).

È chiaro comunque che benessere economico e aumento della felicità percepita non si accompagnano matematicamente. Soprattutto si può vivere meglio consumando meno, uscendo dalle contraddizioni del consumismo capitalista. Si impone l’esigenza della sobrietà in termini di consumi energetici, gadget tecnologici ecc. Temperanza e moderazione si contrappongono a spreco e lusso, fattori di corruzione e decadenza. Oggi invece si accentua sempre più l’enfasi sul consumatore in base all’imperativo che i bisogni vanno sollecitati e moltiplicati a dismisura. Lo stile di vita esagerato provoca crisi e accumulo di debiti. E non si riconosce la priorità che spetta alle relazioni interpersonali e sociali. Lo stile della temperanza deve coinvolgerci come corpi sociali e come nazioni nella prospettiva della caritas. Il rilievo ovviamente non vale per chi versa già nella povertà o ne rasenta il limite.

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