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Cultura

PENTIMENTO CIVICO VERSO IL MAESTRO

MASSIMO LODI - 04/01/2013

Fioriscono annunzi celebrativi del centenario della nascita di Piero Chiara, 13 marzo 1913. Un lodevole ravvedimento operoso. Un tempo Chiara risultava indifferente ai varesini, sul suo successo cadevano sguardi obliqui, si assegnava esagerata fortuna “…a chì robb ch’el scriv” derubricandole a banalità. Era accreditato di fama quasi usurpata, ottenuta con l’intrusione nell’altrui privè, con il pettegolezzo malizioso, con l’audacia nello svestire i panni di dosso al conformismo, volgendo vicende personali in esercizio letterario. Letterario, poi: era davvero una letteratura di qualità?

Se ne poteva dubitare. E difatti Varese ne dubitò. Fece spallucce alla gloria scrivana di Chiara, non ne spartì i trionfi. La città istituzionale non colse il talento dello scrittore, e neppure la cifra dell’uomo. Rimase appartata, com’è solita appartarsi quando dovrebbe partecipare. Nessun riconoscimento onorifico a Chiara da vivo, nessuna ispirazione a eleggerlo propagandista d’una terra detentrice d’allori non solo commerciali e sportivi, nessun cedimento a un moto indulgente verso la cultura, l’arte del narrare, la primazìa del bello.

Solo dopo la morte, e su imbeccata di un paio d’amici del de cuius, la mano municipale uscì dalla tasca dell’indolenza e carezzò Chiara con un premio letterario. Un’iniziativa avviatasi tra lo scetticismo dei più, e poi – nel trascorrere degli anni – divenuta finalmente benaccetta e condivisa, così promozionando lo scrollone morale che l’aveva mossa: un atto di pentimento civico verso il Maestro.

Il centenario dovrebbe servire a riflettere sull’imprimatur etico che sta alla genesi del premio Chiara, ma servire anche ad altro, ora che traversiamo un’epoca di guai assortiti. Per esempio alla sottolineatura del valore che la provincia ebbe per lui. Provincia intesa come insieme di virtù e difetti capaci di creare un mondo armonico, con un’identità. Anzi, con un’anima. Provincia eguale a un unicum, impareggiabile e fascinante, di cui andare orgogliosi.

Chiara sfoggiò soprattutto questa dote: dire verità complesse in modo semplice. Far testimoniare a protagonisti e comprimari di racconti e romanzi realtà note a chiunque, e però da chiunque non gratificate di notorietà per pudore, ritrosia, vergogna o chissacchè di nascosto, insondabile, misterioso. Trovò, Chiara, le chiavi d’apertura del suo cuore e dei cuori altrui, e gli rendiamo il merito d’averci spalancato le porte di tali casseforti, stivate d’umanità gioiosa e dolente. Talvolta né troppo gioiosa né troppo dolente: l’umanità routinaria di ogni giorno, di ogni persona, di ogni momento che non rechi in sé alcuna caratteristica speciale.

Chiara fu il “raconteur” della normalità, del vivere a fari spenti, dell’esistere considerato di retroguardia e invece così primario e diffuso. La sua penna trasformò il provincialismo d’allora – che scontava una notorietà di segno negativo, attribuendosi al termine i peggiori difetti del tirare avanti quotidiano – in universale e sempiterna provincialità. In valore positivo, da prendere ad esempio. Provincialità come amore per le piccole cose che nella vita contano: i gesti antichi, i sentimenti genuini, la dedizione alle radici. Al paese in cui si è venuti al mondo. Al filo invisibile che unisce i nati di questo paese: la memoria di se stessi.

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