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Apologie Paradossali

LA CONSAPEVOLEZZA DELLA FINE

COSTANTE PORTATADINO - 04/01/2013

 

la "Pietà Rondanini"

State leggendo? La fine del mondo è stata rinviata.

Ma non ridiamoci sopra così facilmente. Intanto rimane il mutuo da pagare, la nonna alla casa di riposo, il regalo da comperare alla zia Pina e quante altre cose di cui avremmo fatto a meno.

Eh, sì, questi profeti di sventura non ci azzeccano mai. Ma anche i vati della palingenesi spiritualistica e moraleggiante, quanto a fallimenti… Gioachino da Fiore, Savonarola, Maya e compagni hanno visto solo la loro, di fine.

Così questa materia, veramente scottante, è servita solo a riempire giornali e televisioni, a vendere un po’ di pubblicità, a riempire gli alberghi di qualche paesello che si autocertificava come immune. Peccato!

Peccato perché un po’ di riflessione, qualche slancio mistico, la confessione di qualche peccato nascosto, il perdono reciproco delle offese, non ci sarebbero stati male. Fossimo stati un po’ di più a crederci, sarebbe stato interessante, divertente, persino. Il millenarismo, l’attesa escatologica, la promessa della rivelazione definitiva (Apocalisse = disvelamento) fanno bene, a piccole dosi, al presente, soprattutto se ci aggiungiamo l’idea giudaico-cristiana di giudizio finale.

 ***

L’oggi appare assai più ricco e “nostro”, quando il tempo stringe e non è in nostro potere rinviare qualcosa che tuttavia dipende interamente da noi, quanto al suo valore intrinseco.

A me è capitato un sacco di volte, di “rendere” meglio preparando qualcosa in extremis, una lezione, un compito, un intervento; forse non un lavoro di precisione (non ci sono tagliato); ma le cose in cui dovevo mettere qualcosa di me, mi sono sempre riuscite meglio facendole, o almeno rivedendole e correggendole, in prossimità della fine del tempo a disposizione.

Con una dose di presunzione potrei dire che è proprio della natura dell’uomo, come essere finito, di essere costituito, come soggetto cosciente, dalla consapevolezza della fine, piuttosto che da quella dell’inizio. Sappiamo bene che la “fine del mondo” non è nient’altro che la mia fine, che è questo che mi importa, non i Maya, l’asteroide della Hack, il cambiamento del clima, la tempesta solare, il virus perfetto o che altro. L’inconscio desiderio di vedere la fine del mondo non è altro se il non voler essere soli in quel momento, nel momento assolutamente solo mio, quello prima della fine. Epicuro non centrava l’argomento assicurandoci che non dobbiamo temere la morte, perché fin quando siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo noi. Davvero decisivo è il momento prima, che può non essere il brevissimo istante antecedente, ma una dilatazione della coscienza della fine che può durare tutta la vita, distratta, dimenticata, sommersa, confusa, ma non eliminata. Mi aiuto con un esempio: il famoso preludio di Chopin “La goccia d’acqua”, in cui don Giussani mi ha insegnato a riconoscere il drammatico contrasto tra la nota ricorrente del destino e il vano tentativo di distogliere da essa l’attenzione con divagazioni sempre più affannate, fino all’irrompere di una ritrovata pace, quando la nota dominante è finalmente accettata. Ma se non ci facciamo da noi stessi, anche proprio l’incompiutezza deve essere accettata e qui penso all’“Incompiuta” di Schubert o alla “Pietà Rondanini”, che considero la massima espressione artistica dell’incompiutezza, dove si vede come nemmeno per Gesù e per Maria il compimento avviene solo per l’abbandono di se stessi all’abbraccio di un Altro.

***

Ritornando a terra, su questa esile crosta del tempo, confine tra il nulla e l’eterno, alle prese con la crisi (nel medioevo la si sarebbe chiamata tempestas, tempo contingente, occasione transitoria, non perdita o minaccia) alle prese con la fatica quotidiana, con le relazioni affettive prossime e con la massa informe della folla universale, devo ringraziare tutti quelli “della fine del mondo”, siano pure sciammannati pazzi o furbetti che ci hanno fatto un business o autentici Maya: costringendomi a pensare alla “loro” fine mi hanno aiutato a capire che nessuna fine è la mia fine e che la mia radicale incompiutezza non è la disperata malattia mortale della condizione umana, ma il punto di dialogo con l’infinito.

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