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Universitas

LA SHOAH, DENTRO E FUORI DI NOI

SERGIO BALBI - 18/01/2013

Il prossimo 27 gennaio si celebrerà il Giorno della Memoria, istituito in Italia nel 2000 con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio. L’esigenza di comunicare un senso, di dare credibilità a ciò che accade dentro o fuori di noi, mette da sempre alla prova le nostre capacità di esprimere; raccontare diventa tanto più urgente quanto più ciò che vogliamo dire appare necessario o incancellabile.

Lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti: nella storia non era mai accaduto e non era mai stato raccontato, era unico nel suo orrore, nella precisione e nella complessità dei suoi metodi, nelle sue motivazioni. Come narrare allora tutto questo, come definirlo con una parola, in modo tale che questa risulti pienamente denotativa e non soggetta a identificazioni o assimilazioni improprie?

Anna – Vera Sullam Calimani in un libro dal titolo “I nomi dello sterminio” (Einaudi, 1986) propone una risposta a queste domande, mostrando come un nome sia scaturito da un’esperienza o da una condizione storica, da motivi linguistici o politici e come da questo sia a sua volta derivata una visione dell’evento, un modo di trasmettere la memoria di un fatto indicibile, l’annientamento totale dell’uomo. La memoria, innanzitutto, appartiene ai testimoni perché il tempo, di metafora in metafora, come una lima, rendendo meno duro ciò che si allontana, è nemico del senso; di fronte a questa deriva allora, chiarito che non si può tacere, si deve partire dai primi nomi che i “salvati” (direbbe Primo Levi) davano a quanto era accaduto o stava accadendo.

“Hurban” o “Khurbun” sono termini tradizionali ebraici (distruzione, catastrofe) che già anticamente designavano la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., l’evento forse più terribile che aveva segnato la storia di Israele. Tuttavia la specificità della recente catastrofe non autorizzava un legame di continuità con l’evento biblico, al quale da sempre il termine faceva riferimento.

Nei primi anni del dopoguerra i resoconti dello sterminio erano mescolati agli aspetti più strettamente bellici, ai fatti della resistenza, perché il lasso di tempo era ancora troppo breve per la considerazione del fenomeno in modo completo e soprattutto specifico; per questo nacquero termini che in qualche modo attenuavano la realtà, come “univers concentrazionnaire”, coniato e subito adottato nella lingua francese e, solo più tardi tradotto in altre lingue con più o meno successo.

Soprattutto durante quegli anni si doveva fare i conti con gli echi della lingua nazista, costellata di eufemismi o più semplicemente di menzogne, che voleva definire le camere a gas “trattamenti speciali” o lo sterminio degli ebrei “soluzione finale”. In Israele, alla fine degli anni 40 prevalse il termine “Shoah” (distruzione, desolazione, sciagura improvvisa) vocabolo presente in vari passi della Bibbia, senza però la caratteristica di connotare un evento particolare, ma che contiene in modo implicito una valenza di intervento e punizione divina.

L’adozione di questo termine incontrò per lungo tempo resistenze perché, desacralizzato dall’accostamento ai fatti dello sterminio, non era sentito in continuità con la tradizione e la storia ebraiche. Solo negli ultimi anni il termine si è imposto probabilmente perché, trasferito senza variazioni dalla lingua ebraica alle altre, denota quanto è accaduto in modo specifico e diretto, senza possibilità di relazione con altri eventi. Inoltre la sua origine si attaglia alle dimensioni gigantesche del fenomeno, all’interno del quale pochi infatti furono i tentativi di ribellione, limitati, ma che devono essere ricordati con grande ascolto e attenzione, perché prove che il processo di annullare l’uomo non giunse sempre a completamento.

Shoah sta sostituendo altre espressioni come “genocidio”, perché la storia purtroppo ci costringe ad applicare a sciagure più recenti questa parola, o “olocausto”, parola forse troppo utilizzata, fino a ridurla a un guscio vuoto privo di qualsiasi referenzialità, trasformando la storia da un’esperienza a una fredda e ripetitiva liturgia, a un opaco articolo di fede, smarrita o attenuata la realtà di quanto avvenne. È vero, la memoria appartiene innanzitutto ai testimoni, ma la storia deve superare il corso delle loro vite; nostro è il compito di opporci all’impossibilità della memoria, di combattere l’indifferenza, di conservare all’interno di una parola la capacità di denotare l’orrore senza perderne il senso impadronendosene ogni volta che la si pronuncia.

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