
Per certi aspetti può essere considerato il Carlo Porta di Romagna, pronto a denunciare soprusi e ingiustizie subiti dal popolo. Poeta vernacolare di grande successo, scrittore satirico-burlesco, bibliofilo, gastronomo e giornalista originario di S. Alberto in provincia di Ravenna, Olindo Guerrini (1845-1916) leggeva avidamente il collega milanese e provò ad imitarlo con un bonario Giovannin Bongée oriundo romagnolo: “Barborin, Barborin, te l’ho già ditt, fa no la cialla che son dree a dormì. Te vedet no che te me fee i gallitt? Te vedet no… Salamm! … Salamm a chi?”. Innamorato dei dialetti d’Italia, li maneggiava a piacimento. Senza timori reverenziali pubblicò Le ciàcole de Bepi su un giornale romano facendo parlare in vernacolo veneto il papa Pio X, Giuseppe Sarto. Con una particolarità: amava mascherarsi, scherzare e spacciarsi per altri, farsi beffe della vita e della letteratura che gonfia il petto tutta piena di sé.
Ricorrono quest’anno i centottanta dalla nascita e la sua abitazione aperta al pubblico nel cuore di S. Alberto fa parte del circuito delle case-museo dei poeti e degli scrittori di Romagna. La palazzina a due piani è dotata di una ricca biblioteca di oltre duemila volumi, con rare pubblicazioni risorgimentali, le opere complete di Mazzini, Saffi, Cattaneo e della Scapigliatura milanese, un’ampia rassegna di classici e di romanzi storici d’antan. Compresa, naturalmente, la sua produzione all’epoca tra le più vendute in Italia. Spirito sulfureo e penna acuminata, Guerrini fu infatti a suo tempo un campione di vendite e un primatista di ristampe. Un vero e proprio caso letterario. Le sue “Rime romagnole” a firma Argia Sbolenfi talora sapide e goliardiche quando non erotiche, macabre e scostumate hanno avuto una trentina di edizioni fino all’ultima nel 2020.
Sarcastico e pungente, eccolo rivendicare con fierezza che “l’arte di lustrar le scarpe ai ladri, curvando il dorso, mi negò natura” e, a ben vedere, il suo ribelle sberleffo è più che mai d’attualità oggi in un mondo ancora segnato dalle guerre. È un passo della poesia Agli Eroissimi del 1897: l’autore risponde in rima alla retorica militarista di chi durante la guerra d’Abissinia, “fumando in poltrona empie i giornali di vendette, di stragi e di rovine… baritonando ai poveri coscritti “armiamoci e partite” e poi resta a casa a far l’eroe con la pelle degli altri”. Quella frase, armiamoci e partite, entrerà a far parte del lessico comune. Beffardo e inafferrabile, Guerrini ricorre in questo caso allo pseudonimo Lorenzo Stecchetti, uno dei tanti nom de plume di cui si serve per colpire i bersagli.
Ama firmarsi con altri nomi, prende a prestito le generalità di conoscenti e di personaggi inventati, come appunto il fantomatico cugino Lorenzo Stecchetti ma le enciclopedie lo segnalano anche come Argia Sbolenfi, Marco Balossardi, Giovanni Dareni, Pulinera, Pettronio Stanga e con lo shakespeariano pseudonimo di Mercutio. Scrive di tutto e su tutto, in italiano, in dialetto, in prosa e in poesia, traduce classici e collabora sotto vari nomi a giornali, umoristici e non di Bologna, Ravenna, Genova e Roma. E quando passa dal giornalismo all’editoria, riscuote più successo del padre della patria Giosue Carducci. Il canzoniere poetico d’esordio “Postuma” edito da Zanichelli del 1877, sempre a firma Stecchetti, viene ristampato trentadue volte fino al 1916 e le successive raccolte “Polemica” e “Nova Polemica” avranno diciotto edizioni.
Guerrini prende di mira i potenti Crispi e Giolitti, i poeti romantici, i colleghi giornalisti “tartufi rugiadosi” e da buon nativo della Romagna pontificia – che ha maltrattato Garibaldi – non è tenero con il clero. Ama i viaggi, la fotografia e la bicicletta, visita sue due ruote Milano e il lago Maggiore a cui dedica ispirate rime. Laureato in legge, si guadagna da vivere come bibliotecario all’università di Bologna dove frequenta l’amico Carducci. Conosce D’Annunzio dai tempi della comune militanza nella redazione romana del “Capitan Fracassa” e condivide l’amore per la buona tavola e la scrittura golosa con il conterraneo Pellegrino Artusi, autore della “Scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, considerata la bibbia dei buongustai.
Qualcuno lo definisce l’Omero romagnolo, altri lo paragonano a Gioachino Belli, al Rabelais di Gargantua e Pantagruele e al poeta maccheronico Teofilo Folengo. Ma i maggiori meriti di questo letterato fuori dagli schemi sono forse l’intensa attività di bibliofilo e il contributo dato nel 1871 alla fondazione della Biblioteca Popolare della Società Operaia di Mutuo Soccorso, intitolata a Garibaldi, per contribuire all’istruzione del paese in cui abitava, afflitto da un alto tasso d’analfabetismo nel povero entroterra di Ravenna affondato tra le nebbie e le paludi salmastre. Nella tesi di laurea in biblioteconomia sostenuta all’università di Bologna nel 2018, Martina Faccini scrive che la biblioteca fu una delle maggiori iniziative della Società Operaia di S. Alberto, che influì sull’istruzione femminile e determinò “la crescita della cittadinanza verso forme di solidarietà associazionistica e di apertura sociale”. Un riconoscimento che sarebbe piaciuto a Guerrini, Stecchetti & C: meglio di ogni vanagloriosa medaglia letteraria.