Mentre da un lato abbiamo adesso più che mai bisogno di buona informazione, dall’altro aumenta sempre più la distanza tra la realtà delle cose e l’enfasi ansiogena che oggi caratterizza giornali, i telegiornali e più che mai la galassia informe dei social. Di qui la necessità di considerare l’informazione dei quotidiani e tele-quotidiani come semplice segnale che qualcosa che accadendo, più che come notizia di che cosa stia accadendo precisamente.
Faccio l’esempio dei cosiddetti «dazi» di Trump. Quando lo scorso 2 aprile il presidente americano annunciò di avere l’intenzione di introdurli — peraltro confermando ciò che aveva promesso in campagna elettorale — a sentire i giornali e i telegiornali sembrava che cascasse il mondo. Due mesi dopo S&P 500, l’indice del valore dei titoli azionari delle 500 maggiori imprese quotate sulla Borsa di New York, ha ricuperato tutte le perdite che aveva allora registrato. Quindi non sono stati affatto persi tutti i miliardi di dollari che in quel giorno si è detto e scritto che erano “bruciati”.
Era evidente, ma la gran parte dei commentatori non lo fece rilevare, che gli annunciati dazi erano così spropositatamente alti da costituire in effetti soltanto un segnale della volontà di Trump di aprire una trattativa. Un modo di aprirla un po’ arcaico e oggi inusuale, ma non è questo che in sostanza conta. E infatti gran parte di essi venne “congelata” in attesa di nuovi accordi con i singoli Paesi, ferma restando una tariffa base del 10%, e del 25% su auto, componentistica, acciaio e alluminio.
Il “congelamento” scade il 9 luglio, e Trump ha fatto sapere che il suo governo nelle prossime settimane farà specifiche proposte ai vari Paesi con cui gli Usa hanno relazioni commerciali aggiungendo che ci sono “150 Paesi che vogliono raggiungere un accordo” in deroga ai dazi annunciati il 2 aprile. Si tenga conto che, essendo i Paesi membri dell’Onu circa 200, 150 significa la maggioranza assoluta dei Paesi del globo. Tali dazi, ha assicurato il presidente, saranno molto equi.
Un primo accordo è già stato definito con il grande alleato di sempre degli Stati Uniti, la Gran Bretagna. Cruciale è poi l’accordo che si sta definendo con la Cina, grande esclusa dalla sospensione dei dazi annunciata il 9 aprile. Dopo un crescendo della tensione, che aveva portato a livelli surreali i dazi reciproci che i due Paesi annunciavano, Washington e Pechino hanno concordato una riduzione di quelli sulle merci cinesi in entrata negli Usa dall’annunciato 145 al 30%. E Pechino, che aveva risposto con misure speculari, abbasserà quelli sulle merci americane in entrata in Cina dal 125% al 10%. I due Paesi si sono poi dati altri 90 giorni, quindi fino alla metà di agosto, per continuare a negoziare.
Nell’insieme si stima che a lungo termine con Trump gli Stati Uniti proteggeranno la loro industria dalle merci cinesi con una barriera doganale pari in media al 20 per cento del loro prezzo; e analogamente in varia misura la proteggeranno dalle merci del resto del mondo. Tutto questo avrà di certo una serie di ripercussioni a livello macro-economico, ma non certo nella misura catastrofica che giornali e telegiornali hanno raccontato nei giorni seguenti al 2 aprile scorso, e potrà anche portare verso un nuovo assetto più equilibrato dell’economia mondiale.
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