Se chiedete in giro cosa manca, nel rapporto tra cittadino e istituzioni, vi sentirete rispondere che è l’attenzione. Il dialogo. Lo spirito d’appartenenza. Il cittadino vuole che le istituzioni lo considerino parte fondante/ascoltata dell’architettura statale e colgano questa sua volontà anziché troppe volte disattenderla.
Succede infatti che i candidati a rappresentare le istituzioni chiedano il voto necessario al ruolo, ma dopo averlo ottenuto si dimentichino di ripagare fiducia, attese, speranze. E si rivolgano al cittadino solo in una volta successiva, quando ne è di nuovo richiesto il sostegno.
Il cittadino negli ultimi anni s’è stufato, preso da un senso d’apatia, disillusione, scoramento. Diserta sempre più spesso le urne, pur sapendo che in tal modo contribuisce alla silenziosa trasformazione di una democrazia in una democratura. Comandano sempre quei pochi grazie allo sfilamento di quei tanti.
Bisognerebbe che la politica invertisse la tendenza. A suo primario vantaggio. Perché una politica distaccata dalla società finisce per diventare una politica espugnabile (pericolosamente), il giorno in cui la società si ribellasse, svestendo l’indolenza. E dunque, per arrivare al punto. Se vien colta l’occasione referendaria -com’è il caso dell’attuale tornata, con argomenti il lavoro e l’immigrazione- per suggerire ai cittadini di defezionare, a perderci sono le istituzioni. È il Paese. Siamo tutti. È la nostra dignità civile, sociale, morale.
Vero che le norme rendono legittima l’astensione. Vero che a consigliarla, in passato, si sono alternati partiti d’ogni colore e personalità di diverso profilo. Vero che se una scelta sta a cuore, non c’è appello al defilarsi che trattenga dall’esprimere tramite scheda elettorale un’opinione. E però disincentivare dal voto nell’ormai lunga stagione in cui il voto viene respinto come fastidioso dovere invece che praticato come prezioso diritto è un errore grave. Ma chi lo compie, ben si guarderà dall’ammetterlo. Eppure, scrisse Jonathan Swift in un’opera minore intitolata Pensieri su vari argomenti, “…un uomo non dovrebbe mai vergognarsi di aver avuto torto: è infatti un po’ come dire -in altri termini- che oggi egli è più saggio di quanto non lo fosse ieri”. Purtroppo i nostri rappresentanti -nella circostanza, il centrodestra che governa- leggono poco, ignorano la saggezza, badano alle prossime elezioni e non alle prossime generazioni. Andando a votare l’8 e il 9 giugno gli si può far cambiare idea. E sarebbe una vittoria (un miracolo) da rivoluzione mite, al netto della prevalenza dei sì o dei no e rivendicando la sovranità popolare, l’opposto del populismo sovranista.
Scrive il vicepresidente della Cei, monsignor Francesco Savino a nome dell’assemblea dei vescovi, in una lettera dal titolo ‘Partecipare è custodire la democrazia’: “Non spetta a noi, né è opportuno, indicare come votare, ma è nostro dovere morale, come pastori e come cittadini, esortare ciascuno a non sottrarsi all’appuntamento con la propria coscienza e con la comunità. L’astensione può diventare una forma di ‘impotenza deliberata’, un silenzio che svuota la democrazia”.