
Antonio Tomassini debuttò in politica all’inizio degli Anni Ottanta: consigliere comunale a Palazzo Estense, scuderia Dc. Veniva dalle Marche, studiò qui, era ginecologo, sapeva un tot di Varese. Fece in fretta, indossata la casacca rappresentativa, a sapere il tutto. Perché stava nel Palazzo e fuori del Palazzo. Gli piaceva girare, conoscere, chiedere. Approfondire, istruirsi civicamente (ipse dixit), metabolizzare. Di conseguenza, fu rapidamente in grado d’essere più rappresentativo di quanto lo fosse la sua parte politica, in procinto d’avviarsi a una crisi epocale. E intrecciò rapporti sociali talmente diffusi/solidi che, quando nacque Forza Italia nel decennio successivo, apparve naturale a chi sapeva di cose locali rivolgersi a lui.
Da allora Thomas, come lo chiamavano gli amici, o Sentom -come sarebbe divenuto poi e come avrebbe firmato il suo indirizzo di posta elettronica- diventò un protagonista della scena nazionale oltre che varesina. Quattro volte eletto al Senato, incarichi di prestigio, spesso sfiorata la nomina a ministro della Sanità o Salute. Berlusconi ne fece un ascoltatissimo referente, sul territorio e non solo. Lo apprezzava per il pragmatismo soffice, da consumato diplomatico, e per l’empatia che sapeva suscitare. Nel dialogo con gli alleati, nella dialettica con i rivali.
Il segno identificante di Thomas -scomparso giorni fa a causa d’un banale, rocambolesco, perfido malanno- è stato questo: i modi cortesi al servizio in primis dell’umanità. Il resto veniva dopo. Gli si poteva essere avversari, non nemici. Si poteva obiettarne l’innata propensione al trattativismo, non la genuinità d’intento che ne muoveva l’agire. Si poteva avanzare la critica allo smagato managing delle leve di comando, non alla disattenzione verso il confine tra realismo e cinismo. Vinceva sempre il realismo, e ne ebbe attestati vari. Attribuirgli la feluca di ambasciatore della varesinità fu, in un’occasione pubblica, non un’eclatante piaggeria e invece un riscontro obiettivo.
Generoso nel dare ascolto a chiunque glielo chiedesse, considerava un dovere questa – a volte faticosa- disponibilità, perché da altri in altro tempo ne aveva ricevuto dono. Infine, ma non ultima dote, l’ironia. La capacità di sorridere di sé stesso. Di collocarsi in un insieme, senza volervi a ogni costo emergere. È toccato agli eventi dell’ultimo quarantennio far emergere lui. Ci scherzava su, tanto da immaginare un libro di sola e pura aneddotica che lasciasse testimonianza d’una movimentata esistenza, non immune dalle bizzarrie del caso. Il primo dei divertiti ricordi avrebbe evocato il salotto della sua casa neo-classicheggiante in via Gasparotto, con scenario lago/Monte Rosa. Su quei divani beige s’erano seduti in stagioni diverse quattro uomini politici poi divenuti presidenti della Repubblica: Scalfaro, Ciampi, Cossiga, Napolitano. Thomas avrebbe raccontato ciò che ormai solo i velluti a righe fini, le cornici color oro, il grande specchio dai riflessi luminosi potrebbero rivelare. Ma non riveleranno. La porta su questo mondo s’è chiusa. E la chiave se l’è portata via il Senatore, quasi di nascosto, in silenzio, col passo felpato dei democristiani d’antan. Naturalmente in blazer blu, camicia celeste ton sur ton con gli occhi, le Churc’s usurate il giusto. È così che si esce di scena, lasciandovi memoria d’una garbata recitazione di successo.