
Davvero basta intervenire sui dazi per rendere un paese più ricco e competitivo? Il tourbillon alimentato da questi primi mesi di amministrazione Trump all’insegna del “MAGA” (Make America Great Again) con una spruzzata di “MEGA”, rivolta all’Europa, in chiave anti-cinese preoccupa le imprese italiane, visto l’attivo commerciale di quasi 40 miliardi dell’Italia con gli Usa, secondo solo agli 80 miliardi della Germania con il mercato d’oltre Atlantico. Secondo l’Istat, solo il 7,4% dell’Export della provincia di Varese ha preso la strada degli Usa contro l’11,7% nazionale, anche se non è del tutto chiaro come e dove vengano conteggiate (Varese, Roma?) le vendite di Leonardo, che proprio nel Varesotto ha uno dei suo maggiori poli.
Nell’insieme, una realtà semplice da descrivere ma complessa da affrontare: gli Stati Uniti hanno da anni un vistoso disavanzo commerciale, tanto che nel 2024 hanno esportato beni per 2080 miliardi di dollari e ne hanno importato per 3300 miliardi. È vero che hanno un attivo nei servizi per quasi 300 miliardi, ma il risultato è impietoso: gli Usa comprano dall’estero per 3 dollari ogni 2 dollari che vendono. La Cina conta in questo disavanzo per 295 miliardi seguita dall’Unione Europea (183), dal Messico (172) e dal Vietnam (124).
Dagli anni ’70, quelli della crisi petrolifera e della fine della convertibilità del dollaro in oro (e con esso del sistema di Bretton Woods), la crescita americana si è affievolita. Al disavanzo commerciale, in aumento dal 1975, si aggiunge il disavanzo federale. Gli Usa sono paese dalle tasse ridotte e l’attuale amministrazione non ha certamente idea di aumentarla. Risultato: due deficit gemelli che si traducono in un “eccesso” di potere d’acquisto rispetto alla produzione e aumento delle importazioni. E in un paese dove la disoccupazione è solo al 4% non c’è nemmeno molto spazio per aumentare la produzione. Quindi anche l’idea del “riportare a casa” produzioni oggi svolte all’estero incontrerebbe subito dei limiti. Una guerra dei dazi rischiare non solo una recessione mondiale, ma anche di minare la fiducia nel dollaro, indispensabile per finanziare il forte debito pubblico Usa (si spiegano anche le manovre di taglio della spesa federale.
C’é tuttavia un ulteriore problema grosso come un macigno. Era il 1990 quando Business Week, la “bibbia” della stampa economia Usa, scriveva: “Abbiamo vinto la Guerra del Golfo. A produrre armi e aerei siamo bravissimi, ma sappiamo produrre le cose di tutti i giorni?”. In quegli stessi anni, Akio Morita, il fondatore della Sony, scriveva ai suoi amici americani: “sono spesso nelle vostre case, ma non vedo televisori, compact disc, registratori, fatti da voi”.
Nelle auto, la produzione Usa è stata progressivamente sostituita da auto migliori di marchio giapponese (Toyota, Honda, Nissan, Mazda) o coreana (Hunday). Molte delle europee di gamma alta (Mercedes, Bmw) sono prodotte negli Usa e Volkswagen fornisce il mercato Usa (e non solo) dal Messico. Mel 2023, i produttori non-americani” hanno prodotto più auto (4,9 milioni) negli Usa che non gli americani (4,6), elettriche a parte. BMW con la sua fabbrica nel South Carolina, è da anni il maggior esportatore di auto dagli Usa in valore.
Ancor peggio sono andate le cose nell’elettronica: non solo Apple produce l’80% dei suoi iPhone nelle fabbriche cinesi (quelle di Foxconn, che peraltro è azienda di Taiwan), ma la Cina è la fabbrica mondiale per tutti i maggiori marchi Usa i, da HP a Cisco a Dell. IBM in India ha più dipendenti (150 mila) che negli Stati Uniti e ha venduto in questi anni le sue divisioni pc e server alla cinese Lenovo, che ha rilevato anche i cellulari di Motorola. La retromarcia vale anche per l’industria chiave dei semiconduttori – che negli anni 70 era aperta dai produttori americani con progettisti italiani come Federico Faggin – oggi dominata dalle industrie di Taiwan. E la tecnologia chiave per la produzione dei “chip” della foto-litografia (che serve per produrre le “maschere” di produzione dei chip) è dominata da un’azienda olandese, la ASML e ogni macchina di questo genere costa centinaia di milioni di dollari.
A rendere ancora più complesso il quadro è poi la gestione della “filiera”, quindi la catena di fornitura e subfornitura. L’industria dell’automobile è un tipico esempio: visto che oltre il 50-60% del valore di un’auto è fatto di componenti di fornitori diversi, che cercano di essere vicini ai loro clienti. La stessa cosa avviene anche per l’elettronica: in uno smartphone che sta in tasca ci sono molteplici tecnologie e quindi subfornitori: dalla scheda madre al processore, dalla memoria al display, dalla batteria alle plastiche. E naturalmente c’è anche una manodopera da formare, che si tratti di abbigliamento o elettronica, di meccanica di precisione, di motori o di turbine. e anche se la Cina non è più il paese dei bassi salari di un tempo (lo sono diventati Vietnam, Bangladesh, Myanmar), reimpatriare la produzione farebbe moltiplicare i costi. Le risposte facili non esistono.