
Ora che è morto si ascoltano quasi solo pianti accorati. Ma la danza macabra intorno a papa Francesco era iniziata in sospetto anticipo, con le voci sempre più insistenti – quasi voti augurali da parte dei nemici – di un possibile “passo indietro” ogni qualvolta si rendevano necessarie le cure dei medici. Accadeva ben prima che insorgesse la polmonite bilaterale che ne ha minato la salute negli ultimi mesi. Si invocò la rinuncia in occasione dell’intervento chirurgico subìto dal papa all’intestino, quando accusò problemi di funzionamento del pancreas e del fegato, durante una brutta influenza che contrasse durante la pandemia del Covid e perfino per la zoppia provocata da problemi al piede e al ginocchio che lo costrinsero ad usare la sedia a rotelle.
Lui, imperturbabile, ci rideva sopra: “Lo so che là fuori c’è qualcuno che dice che è giunta la mia ora, me la tirano sempre”, confidò a Giorgia Meloni in visita all’illustre malato al policlinico Gemelli. E intanto pensava, per tempo, a rendere irreversibili le proprie riforme proclamando ondate di nuovi cardinali, scelti in ogni parte del mondo “per esprimere l’universalità della Chiesa”. Nel conclave che dovrà nominare il successore sono rappresentati 65 Paesi del pianeta, 54 berrette rosse sono europee e 84 provengono dalle tre Americhe, dall’Africa, dall’Asia e dall’Oceania. In larghissima maggioranza sono state scelte dal papa argentino, 110 su 138, l’80 per cento. Diciannove porporati sono italiani e alcuni di essi figurano nella top-ten dei papabili.
Francesco (47 viaggi compiuti nel mondo, 18 milioni di followers sul web, secondo pontefice defunto durante il Giubileo dopo Innocenzo XII nel 1700), ha voluto mettere al sicuro, con le nomine al sacro collegio, le linee-guida del proprio apostolato che sono la difesa degli ultimi, l’accoglienza dei profughi, la tutela dell’ambiente contro le ragioni del profitto, la salvaguardia dal capitalismo estremo, la tolleranza nei confronti delle altre religioni, la ricerca a oltranza della pace contro ogni forma di riarmo e, sul fronte interno, l’avversione al clericalismo. La Chiesa di Francesco è stata più accogliente e pastorale che dogmatica, aperta ai divorziati che vogliono costruire una nuova famiglia e, in prospettiva, alle donne che ambiscono al diaconato.
Un concentrato di tutto ciò che la Chiesa ultra-tradizionalista odia. Il gruppo italiano nel prossimo conclave resta il più consistente ma, come si dice, i giochi sono aperti. Il diritto canonico vieta ai cardinali elettori ogni forma di patteggiamenti, promesse e accordi volti a dare o a negare il voto ai candidati: i trasgressori rischiano la scomunica latae sententiae, immediata. L’impronta di Bergoglio sul collegio cardinalizio è netta e marcata. Francesco l’ha voluto armonioso “come un’orchestra sinfonica” e capace di prefigurare una Chiesa delle periferie perennemente in missione sulle strade del mondo. Una Chiesa in cui ha provato a fare pulizia, primo papa postconciliare a far emergere gli scandali, la pedofilia e la mala gestione delle finanze.
Un papa per molti versi scomodo, avversato dai carrieristi di curia, dagli alti prelati ultra-tradizionalisti americani, dai cardinali iper-innovatori tedeschi e da potenti vari del globo. Tutti accomunati dall’ostilità verso l’ambientalismo, il pacifismo e la vicinanza ai poveri, tutti schierati contro il pontefice nemico del neoliberismo economico, pronti a tacciarlo di populismo e di marxismo come accadde al “papa buono” Giovanni XXIII, a cui lo legava la ricerca del dialogo e la voglia di pace. Accusato perfino di eresia per aver fatto “affermazioni ambigue che permettono interpretazioni contrarie alla fede e alla morale” come la riammissione alla comunione dei divorziati rimaritati e la libertà religiosa.
Restano nella memoria collettiva le sue provocatorie frasi-manifesto: i migranti siamo noi, anche Gesù era un migrante; il Mediterraneo è diventato un cimitero; salvare i migranti vuol dire anche integrarli; a Gaza è in corso un genocidio; servono più parroci e meno teologi; il chiacchiericcio e lo sparlare degli altri uccidono la fratellanza; chi alza muri (come Trump) non è cristiano; è in atto la globalizzazione dell’indifferenza dei mercati e della tecnologia. Al funerale in tanti coloro che lo hanno attaccato, dall’argentino Milei (“è un rappresentante del maligno”) al presidente Trump (“è troppo politicizzato”), dalla premier Meloni (“non lo capisco, mi sento una pecorella smarrita”) a Salvini (“non è il mio papa”). Tutti o quasi hanno poi cambiato idea, costretti a fare i conti con il proprio elettorato cattolico.
Chi verrà dopo di lui? Il conclave che si aprirà il 10 maggio non sarà semplice, gli esperti dicono che c’è bisogno di un successore che sappia mediare, che il prossimo papa deve essere capace di fare sintesi e aggiustare i pezzi, che la scelta dipende dal giudizio dei cardinali sullo stato di salute della Chiesa. Certo Trump farà il tifo per Timothy Dolan, arcivescovo di New York, conservatore e a suo tempo considerato uno dei “cospiratori” che scrissero una dura lettera al papa. Un terzetto di papabili è italiano: il diplomatico Pietro Parolin, 70 anni, artefice dell’accordo con la Cina sui vescovi, l’inviato di pace in Ucraina e presidente della Cei Matteo Zuppi, 69 anni e il “giovane” patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, 60 anni, figura di equilibrio in Medio Oriente.
Tra i conservatori sono accreditati il teologo Péter Erdö, 72 anni, arcivescovo di Budapest, ratzingeriano con due conclavi alle spalle, il vescovo di Stoccolma Anders Arborelius, 75 anni, luterano convertito al cattolicesimo e l’arcivescovo algerino di Marsiglia Jean-Marc Aveline, 66 anni. Fuori dall’Europa godono i favori del pronostico Fridolin Ambongo, 65 anni, arcivescovo di Kinshasa, alfiere della rivolta dei vescovi africani contro le aperture vaticane sulle benedizioni alle coppie gay e gli americani Blase Cupich, 76 anni, arcivescovo di Chicago, e Joseph W. Tobin, 72 anni, arcivescovo di Newark, che viceversa hanno sfidato Trump sulle deportazioni. Un forte candidato asiatico è il filippino Luis Antonio Tagle, 67
anni, che prese voti anche nel 2013. La domanda è sempre la stessa: di che tipo di guida ha bisogno oggi la Chiesa?