
Nuccia aveva appena 22 anni quando a Cassabile venne firmato l’Armistizio.
Era stata una cairolina, ma ad “allattare” mente e anima non erano giunte solo le teorie di Platone, i dolci versi di Catullo e le Vite Parallele di Plutarco, ma anche le idee di un padre soldato che aveva ben capito da che parte stare. E così lei, quando l’8 settembre aprì le porte alla Resistenza.
Nuccia è un nome scolpito nella roccia del San Martino, il piccolo “Carso” della nostra memoria collettiva locale. Lì sono incise le sue gesta di coraggio nell’affrontare i pericoli di un’impervia missione: lei, così giovane, a passare informazioni; lei, così giovane, a spiare i programmi delle pericolose SS e a riferirli; lei, così giovane, che non si arrese al primo fallimento della sua lotta partigiana e lo rinnovò altrove.
Nuccia trovò la morte in quello che immaginiamo un giorno di neve e silenzio sulle montagne dell’Appennino piacentino. Un silenzio improvvisamente squarciato dalle porte spalancate per mano degli invasori, dal fracasso di un’irruzione, dal sibilo dei proiettili. Ne basta uno, a volte, per fermare una vita; non ne bastano mille, sempre, per spegnere un ideale.
Anche Calogero aveva capito subito che quella tessera che un po’ tutti firmavano, per autentico fanatismo o quieto vivere, lui non l’avrebbe firmata.
E allora ecco il carcere, come tutti coloro che il Fascismo lo rifiutavano di punta. E poi fuga, da un estremo all’altro dell’Italia, da Agrigento a Varese, dal Comune di Favara a quello della Città Giardino: stesso zelo, stesse capacità, stessa umanità. Stesso potere di cambiare il destino proprio e altrui, quello che tutti in ogni momento della vita avrebbero ma non sanno trasformarlo in gesto, perché sprovvisti di coraggio.
A Calogero, il coraggio, avanzava: il suo timbro da capo ufficio anagrafe ne salvò a centinaia, altrimenti destinati ai treni in partenza per la morte, ma poi divenne “biglietto di sola andata” per un altro fatale viaggio, il suo. Perché Calogero aveva deciso di non fuggire, di non rinnegare, di non aggiustare, pur già consapevole del finale della storia: dai Miogni a Dachau, poi alla malattia, quindi alla morte.
Enrico era un operaio pellettiere che aveva frequentato le scuole fino alla sesta classe; di fede comunista, conobbe subito l’odore della battaglia contro il regime e il sacrificio del carcere, quasi considerasse la prigione un’evenienza necessaria per difendere le sue idee.
Quando venne eletto sindaco di Varese, il 26 aprile 1945, dietro a delle sbarre aveva trascorso quasi metà della propria vita, in Italia, in Francia, in Belgio e in Spagna. Ma anche in questo caso, “sotto i colpi d’ascia della sorte”, ecco un altro capo che resta “sanguinante ma indomito”: da qui le valorose gesta, una volta tornato in patria, e quel prestigioso riconoscimento, nell’Italia finalmente liberata, a ripagarlo con onore un passo prima di una vecchiaia da vivere nella pace di chi non ha rimpianti.
Nuccia (Casula), Calogero (Marrone), Enrico (Bonfanti). E con loro Carletto (Ferrari), Carlo (Avegno), Evaristo (Trentini), Elvio (Copelli), Luigi (Ghiringhelli), Walter (Marcobi), Leopoldo (Gasparotto) e tutti gli altri che sicuramente in questa sede dimentichiamo.
Non solo nomi di vie o di istituti superiori, non solo foto in bianco e nero sui libri di storia, non solo “incidenti” di una giornata di commemorazione, di una lettura, di un racconto che non rimane, ma vite vere, di varesini veri e di un 25 aprile vero.
La cui luce, 80 anni fa, illuminò – dopo il buio – i gli stessi sentieri esistenziali che noi percorriamo oggi.