“Quando il fascismo dettava la dieta – La propaganda a tavola tra sovranità alimentare e autarchia”, edito da People, è il nuovo libro di Enzo R.Laforgia, professore, storico e assessore alla Cultura del Comune di Varese. Qui di seguito la presentazione del volume fatta dallo stesso autore su ossigeno.net
Il 22 ottobre del 2022, Giorgia Meloni annunciava all’orbe terracqueo la sua squadra di governo. Lo stesso giorno, Antonio Polito, sul Corriere della Sera, si soffermava ad analizzare le scelte lessicali, che accompagnavano le intestazioni dei 24 nuovi ministeri. “Nomina sunt consequentia rerum”, esordiva il giornalista. I nomi sono conseguenti alle cose…
Infatti, già nei nomi proposti, attinti da una ben precisa enciclopedia politica, veniva orgogliosamente rimarcata la matrice di destra del nuovo governo. Ma, tra tutti, “decisamente enfatico”, scriveva Polito, risultava essere quello del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Quell’espressione, “sovranità alimentare”, risuonava come una lontana, nostalgica eco dei tempi in cui in Italia fu sbandierata, senza successo, una politica economica all’insegna dell’autarchia.
Fu lo stesso ministro, il giorno dopo, ad intervenire sul quotidiano milanese per chiarire che quelle due voci, che andavano ad arricchire la tradizionale denominazione del suo ministero, non avevano nulla a che fare con le subdole interpretazioni dei malpensanti, ma esplicitavano, in realtà, la ferrea volontà di difendere le produzioni nazionali e tutelare i lavoratori della filiera agroalimentare (…)
(…) Mi sono dedicato, per un po’ di tempo, a ricostruire quel momento della nostra storia nazionale, durante il quale gli italiani furono mobilitati nella difesa della Patria e della sua dignità ferita impugnando… forchetta e coltello!
Insomma, come accade sempre agli storici, devono essere state le domande sollecitate dal nostro tempo presente a spingermi a guardare all’epoca in cui maturò un’altra idea di sovranità alimentare, che avrebbe poi conosciuto una sua perversa evoluzione nell’autarchia fascista. L’Italia, si disse allora, era stata chiamata a “far da sé”, a “bastare a se stessa”. E non per scelta spontanea, ma per l’isolamento economico, in cui rischiò di trovarsi a causa dell’insana e ingiustificata invasione di un Paese sovrano, l’Impero d’Etiopia. Fu negli otto mesi della cosiddetta Guerra d’Etiopia (dal 2 ottobre 1935 al 5 maggio 1936) che gli Italiani impararono a fare i conti con una politica economica improntata all’autarchia, ma che, nella vita quotidiana e con linguaggio più esplicito e diretto, si tradusse nel dover “stringere la cintura”. Bisognava consumare meno e, soprattutto, consumare solo prodotti italiani. Fu una grande prova non di forza, ma dell’orientamento totalitario già intrapreso dal regime, che ora entrava nella cucina degli italiani per dettare loro la dieta (…).
Fu così che fare la spesa, preparare e consumare un pasto diventarono manifestazioni patriottiche e palesi testimonianze di fede fascista. (…)
Alle massaie sarebbe spettato il compito di vigilare sull’osservanza delle prescrizioni alimentari ed economiche dettate dal Partito, facilitate in questo anche grazie alla produzione di ricette e ricettari, che fornirono precise indicazioni su come fare la spesa e su come preparare i pasti. Non mancarono anche proposte gastronomiche figlie dirette del clima di generale eccitazione per l’impresa africana, come la “Trota salmonata alla Badoglio”, il “Dolce Graziani”, lo “Sformato autarchico”, il “Polpettone Makallè”, i “Tartufi abissini”, la “Torta Eritrea”, il “Minestrone antisanzionista”, il “Dolce Somalia italiana”, lo “Sformato autarchico” insieme a molte altre, che contemplavano l’uso di un prodotto coltivato in colonia e che era sbarcato proprio in quegli anni sulle tavole degli italiani: la banana. Perché, come avrebbe ricordato molto tempo dopo Giampaolo Dossena, negli anni Trenta anche mangiare banane era “un atto patriottico”.
I ripetuti inviti alla “sobrietà”, a consumare meno limitandosi al “necessario”, sembrerebbero stridere con le difficoltà che la popolazione aveva nel soddisfare i bisogni alimentari essenziali. Per una buona parte degli italiani, infatti, non si poneva il problema di mangiare meno ma quello di mangiare almeno una volta al giorno.
Alla luce di quanto accadde nel decennio successivo, possiamo forse interpretare la campagna di Stato per una cucina antisanzionista fondata sul poco, come una sorta di preludio alla cucina di guerra fondata sul niente, alla quale tutti dovettero forzatamente adattarsi a partire dagli anni Quaranta. (…)