“Un esercito di artisti, poeti, pittori, musicisti, scultori, non avrebbero mai fatto una guerra così atroce…” così scriveva decine di anni fa, in “La barbarie dal volto umano”, parlando dell’olocausto della Seconda guerra mondiale, Bernard Henri -Lévy, il filosofo francese autore, tra l’altro, del recente “La solitudine di Israele” un libro che scuote le coscienze, che interroga, che ci consegna la brutta, bruttissima, storia di oggi.
Noi ci proviamo in maniera pervicace e cocciuta con la poesia che dovrebbe, dico dovrebbe, salvare il mondo, ma forse non ce ne sono mai abbastanza di poeti rispetto a guerrafondai e dittatori che in ogni caso saranno vittime, come è sempre stato della loro cupidigia e della loro sete di male assoluto. Daìta Martinez, palermitana di origini spagnole, scrive un capolavoro dal titolo “Liturgia dell’acqua” Anterem Edizioni-Cierre Grafica, che fa bene Maria Grazie Calandrone, nella prefazione ad accostarla alla “Incandescenza mistica di Amelia Rosselli…” soprattutto dove si evidenzia quel plurilinguismo musicale e poliglotta che compone il testo, una sorta di “moto quantico, moto nascosto perché chi scrive incide figure solide che non chiedono di essere capite” ma aperte “come frutti di melograno e ascoltate gustate, con il succo della lingua. Quello che impressiona è la geometria maniacale e anche un po’ ingessata, ma è qui il suo stile”, versi che vanno dalle 16 fino alle 65 battute perfettamente e mai “circoncluse” in un perimetro dove è assente ogni tipo di punteggiatura, e dove il senso implode di un “colmo mediterraneo traboccare in colori e sapori della vita”.
Non ci sono altre formule se non i sussurri lessicali, in questo precipitarsi dell’acqua fuori della fonte, ad abbeverare di sussurri buoni la sete del poeta, di un’acqua liturgica che sgorga non si sa dar pace del suo fluire e per quali abissi passa. “Pochi baci sul mattino e l’acqua/dei coriandoli discesi al grembo/la minima dolcezza del sogno e /poi i gomiti come rosa spina,/ s’è spinato è il velo solo della croce”.
Di diversa connotazione in prosa poetica è la plaquette di Viviana Faschi edita da Gaele ed illustrata da opere di Paolo Finazzi dal titolo singolare “Tsunami-Desiderio macchina”, dove una riflessione profonda sul desiderio passando dalla filosofia e dalla psicanalisi, in special modo Lacan, si traduce in un piccolo monile di poesia dove il dono non è l’oggetto desiderato ma tutto il pensiero che lo precede e che viene articolato dalla parola poetica… “A volte invece è chiaramente il buio/e quel misto di attesa e frustrazione. Nella/camera sarò sempre sola ma il sogno è un/labirinto di ospedali dismessi dove/ricoverano sempre i miei morti…”.
Anche in “Fughe Verticali” di Mario Chiodetti sempre di Gaele e illustrato dalla bravissima visual storytelling Chiara Dattola, che Fulco Pratesi nella introduzione al libro non esita a definire “versi leggeri e trasparenti proprio come un acquerello dal vero nell’ambiente cristallino dell’alta montagna” ed è così questa poesia in cui ritrovo il miglior Giampiero Neri o Marco Ceriani, mai letti abbastanza per quella sensibilità verso il mondo naturale che ci circonda e che (anche) con le guerre l’uomo distrugge. “Apre un sorriso la terra/sotto gli zigomi alti degli aceri/e il forte naso d’ontano/inchinato all’orizzonte./Sciabola il nibbio/angolo acuto/sopra l’occhio vivo d’acque remote. /Nasconde il salicone/amori di capinere/cantati /nell’ora più verde del mattino”.
Davvero un bellissimo affresco naturale della vita. E cosa dire del poeta operaio e pittore Sandro Sardella, che dalla Rasa ci circonda sempre dei suoi “dis-canti” amorosi del suo ambulare poetico con Blues Discanto e con la “Danza Macabra” edito da Addio Lugano bella edizioni che a dispetto del titolo raccoglie opere significative di Michel Licheri e Reto Rigassi, poesie e immagini forti di una natura senza fronde come distrutta dai bombardamenti ma che ancora tiene ferme le radici affondata in quella terra ferita che si ribella solo con l’’ostinazione delle radici dove si genera nuova vita dopo la barbarie umana. “Visione apocalittica…/danze macabre d’alberi combusti../ una strage degli innocenti.. nella verità dell’occhio/dell’artista/tronchi neri cadaveri.. giacciono/monumentali. nella sofferta denuncia del poeta/…cupo presagio di rovine.. incomprensibile massacro.. atroce ferita”.
Con una veggenza impressionante Sardella e i suoi “co-autori” ci ricordano che la guerra non è solo follia destruente con lutti e rovine, ma anche la distruzione del territorio che con la strage degli innocenti anche la scomparsa della flora e della fauna avvelenati per sempre da una nuvola nucleare che rende la terra un deserto sempre più inospitale, arido e invivibile.