La Guerra dei dodici giorni davvero finita? Dopo la tregua, il Grande accordo? Dopo il Grande accordo, Medio oriente miracolosamente tranquillo? Non ci crede nessuno, però bisogna subire le giravolte di Trump, regista un po’ persuaso un po’ obbligato del lugubre film israelo-iraniano. Ma il copricapo rosso da baseball con su scritto Make America Great Again è meglio scordarlo, dismetterlo, riappenderlo. Prendono cappello anche gli adoranti sovranisti. Prometteva, l’imberrettato che lo esibisce, età dell’oro, pacificazione mondiale, benessere all in, preso tutto e per tutti. E a chi si domandava: sì, però, quel livore economico, quella voglia espansionistica, quello sventolar burbanza preoccupano. A costoro, infedeli del verbo occidentale, veniva risposto: è la tattica, bellezza. Anzi, la strategia. Give heed (prestate ascolto): Trump, furbone di tre cotte, si rivelerà maestro nell’arte della negoziazione politica. Dopo ogni sprint, una frenata. Go and stop. Stop and go. Fessi a non crederci, e a vederlo come un disordinato, arruffone, prepotente tycoon privo di qualunque limite. A cominciare dal buonsenso. Lui sa scherzare col fuoco, cercate di capirlo. Ma a quale giocoso prezzo?
L’American First che disdegna le grandi utopie di massa, non sa sostituirvi un pensiero di virtuosa affermazione. Gioca d’azzardo su qualunque tavolo, e senza chiedersi se ne vale la pena, visto quanto c’è in palio. Non importa. Avanti così perché nulla risulta più appagante dell’esagerazione (il culto dell’over), e pazienza se si mette a soqquadro la precaria stabilità -purtroppo è altamente precaria- dell’intero pianeta per inseguire l’hybris da stivalonato cow-boy. L’ordine mondiale lo decido io, e al diavolo i ricami delle consunte diplomazie, il rammendo della globalizzazione sdrucita, l’opzione che il dialogare sia meglio del devastare.
Ha voglia il Papa, beatificatore della mediazione, a implorare razionalità e lungimiranza. Sante parole al vento: memorabile e vana lezione. Vince il concetto di forza sulla nozione di saggezza. Se hai di fronte un despota (Khamenei) che vuol distruggere con l’atomica uno Stato (Israele), cerchi di dissuaderlo tramite la congerie d’armi all’apparenza ridicole in confronto agli ordigni sganciati dai bombardieri B2, e invece alla lunga più efficaci, curative, chirurgiche. Lo isoli, gli fai mancare il benessere invano garantito ai cittadini-sudditi, ne incrini l’immagine sino a che da sola non si spezzi per incapacità palese. Se invece lo bersagli a colpi di Midnight Hammer (Martello di mezzanotte) ne ricevi in cambio una pioggia di chiodi ritorsivi che colpiscono nel mucchio, e chiamano a risposte e controrisposte. Giusto il contrario delle promesse fatte dall’aspirante Nobel per la pace, geloso del predecessore Obama, sbattipallero verso l’Europa, mercatista sottobanco con Putin. Ecco dove ti porta l’ego supremo, la meocrazia (autovenerazione) sfidante della teocrazia (potere contrabbandato come missione divina). Khamenei is the worst, e però Trump is not the best. Il tiranno è il peggio, ma il tiratore non è il meglio.