Politica

NESSUN MIRACOLO

ROBERTO CECCHI - 27/06/2025

Sarebbe sciocco e inutile nascondersi che stiamo pensando al nostro futuro con una certa crescente apprensione. Non che adesso le cose siano troppo diverse da come sono sempre state, perché è da decenni che viviamo nell’instabilità. Anzi, abbiam fatto dell’instabilità un fondamento del nostro vivere civile. Basta guardare ai governi che si avvicendano in continuazione (salvo quest’ultimo e pochi altri prima di questo), dando vita ad esecutivi che mediamente durano lo spazio di un mattino. Eppure, abbiamo imparato a conviverci, mediando, rintuzzando provocazioni e le fughe in avanti. Ci siamo fatti una scorza durissima e duttile contro le stravaganze istituzionali, riuscendo talvolta anche a sorriderne.

Adesso, però, lo scenario è diverso. Quello che accade sta modificando profondamente la nostra percezione della realtà. È vero che i problemi son fuori dal nostro territorio, ma temiamo che diventino i nostri problemi. L’Ucraina, la Striscia di Gaza, l’Iran irrompono nelle nostre case con le terribili cronache di tutti i giorni, senza che sia possibile fare qualcosa. L’Europa è come se non esistesse, incapace di muovere un dito. Da cui discende una forte sensazione d’impotenza, dell’impossibilità di essere attori e prevale l’idea che resteremo degli spettatori inermi di un thriller che non vorremmo vedere. Mentre conserviamo la convinzione – a ragione – di trovarci nella regione del mondo più colta e più democratica. Da cui, in fine dei conti, pensiamo che sia nato tutto il meglio che ci possa aspettare in termini di civiltà e di libertà. E quindi è difficile credere che tutto questo nostro armamentario della tradizione non conti nulla. Che non abbia un peso.

Per cui, inevitabilmente, viene da chiedersi chi sia il colpevole. Perché gli USA, che consideravamo, ormai, da sempre, parte integrante del nostro mondo, improvvisamente si son rivoltati contro? Perché non son più dalla nostra parte? Chi è il responsabile di questa situazione di profonda incertezza? Se si va alla ricerca di un capro espiatorio è facile imbattersi nell’attuale presidente USA, che coltiva con cura maniacale tutti gli atteggiamenti possibili e immaginabili per dare l’idea di essere responsabile di tutto quel che accade. Di essere la quintessenza dell’antipatia. Il motore dell’instabilità. Non c’è giorno che non faccia le bizze, che non sfoderi arroganza e che nell’arco di un quarto d’ora dica tutto e il contrario di tutto (prima concede 15 giorni di tempo all’Iran per trattare e dopo tre giorni, invece, gli spara in testa). È la vittima sacrificale ideale dei nostri sogni di normalità. E viene da pensare che quando sarà passata ‘a nuttata tutto possa tornare come prima, magari già con le elezioni di midterm del 2026.

Non sarà così. Probabilmente. Bisogna prendere atto, con la serenità della ragione, che quello che stiamo vivendo è il frutto di un cambiamento profondo della società americana e non la bizzarria di un singolo, che pure ci mette del suo. La nuova presidenza è riuscita a interpretare – per adesso – un sentimento di rifiuto verso tutto quello che consideravamo un dato acquisito. Contro l’internazionalismo liberale nella politica estera statunitense, nata col secondo dopoguerra. Contro i processi d’integrazione globale, contro l’espansione del libero commercio, contro le delocalizzazioni industriali e la finanza globalizzata. Sentimenti di ripulsa che hanno origine dalla crisi finanziaria dei subprime del 2008-2009, quando il Pil statunitense ebbe un crollo pauroso e alcune parti del paese rimasero devastate, come la zona industriale del Midwest– la Rust Belt – già vittima di processi di deindustrializzazione (Del Pero 2025).

Dunque, bisogna fare i conti col fatto che quella statunitense è una crisi profonda, dissimulata da prove muscolari come le bombe sull’Iran, e non bisogna aspettarsi il miracolo di un ritorno al passato. È l’emergere di un disagio che cova da anni e che non si risolverà nel breve periodo. Dunque, dobbiamo cavarcela da soli e l’unica cosa possibile è fare qualcosa in più che tifare per un’integrazione europea, più ampia e più solida di quella attuale. Bisogna incamminarsi rapidamente su quella strada, senza tentennamenti, distinguo e dilazioni temporali, sperando ti essere ancora in tempo.