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Politica

LA SCOMPARSA DEL LAVORO, IL DRAMMA DELL’UOMO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 15/02/2013

Dovrebbe, ma il lavoro non è esattamente al centro della campagna elettorale che dedica a questo tema centrale per il nostro avvenire soltanto delle belle parole invece che proposte concrete.

La progressiva scomparsa del lavoro significa disoccupazione, i giovani che non trovano un’occupazione e gli anziani che non li vuole più nessuno. Ma senza lavoro non c’è crescita economica, la produzione ristagna, diminuiscono i redditi e i consumi; l’intero Paese è in recessione e va verso un inesorabile declino.

Poi c’é il gravissimo aspetto umano: chi non ha un lavoro stabile e vive da precario non ha certezza di futuro; la società si frantuma nei particolarismi, prevale l’istintivo desiderio del “si salvi chi può” e viene meno il coraggio per formare le famiglie che assicurino il ricambio generazionale.

Sono lontani gli anni fervidi del dopoguerra quando l’Italia si trasformò da Paese povero e prevalentemente agricolo in una grande potenza industriale, esportando prodotti innovativi a buon mercato, il “made in Italy”, e inventando il “miracolo economico” che i governi degli ultimi trent’anni hanno dissipato per mancanza di oculatezza nella gestione delle risorse e per avidità di consensi elettorali da parte di un popolo che è stato così disabituato all’esercizio della responsabilità. Il lavoro non si crea per decreto legge; servono una serie coerente di provvedimenti che realizzino le condizioni affinché le imprese possano operare in condizioni di competitività internazionale. Alcuni di questi dipendono dal governo, come l’equilibrio tra le tasse in entrata e la spesa pubblica in uscita, una burocrazia più snella ed efficiente, un sistema giudiziario che sappia risolvere le cause in tempi rapidi. Altri invece dipendono dalle parti sociali: gli imprenditori devono avere il coraggio di investire trovando i sindacati non aprioristicamente contrari all’aumento di produttività che dipende da una ottimale combinazione dei fattori produttivi (e non da maggiore fatica dei lavoratori).

L’idea balzana che lo Stato possa fare quel che vuole: ignorare il vincolo di bilancio, fare debiti, stampare moneta, sostenere aziende in perdita, pagare lavori inutili non trova riscontro nella realtà. L’economia è in realtà un circuito economico che si regola empiricamente sulla compatibilità dei fattori: il risparmio, la produzione, gli investimenti, i consumi; diversamente il sistema entra in un ciclo di inflazione che travolge i redditi, polverizza salari e risparmi, fa aumentare i prezzi, provoca recessione e rende incerto l’avvenire.

Da due decenni l’Italia non cresce più; anche a causa della globalizzazione che ha provocato una diversa distribuzione internazionale del lavoro con la delocalizzazione degli impianti produttivi dall’Europa all’Asia, nei Paesi emergenti dove il costo del lavoro e della vita sono minori.

A questa tendenza si sarebbe dovuto reagire con l’innovazione, con le nuove tecnologie, con la produzione di beni ad alto contenuto tecnologico in modo da compensare l’incidenza della componente salariale. Sul fattore retribuzione incidono poi anche i costi sociali, la presenza di un sistema sicurezza sociale divenuto sempre più costoso per il prolungamento della vita media, che si paga con le tasse e che non è efficiente come negli altri Paesi europei.

Contrariamente a quel che si pensa, la maggior durata della vita lavorativa e l’obbligo di lavorare più a lungo non è rilevante per la domanda di lavoro: i lavoratori che vanno in pensione non vengono automaticamente rimpiazzati perché l’occupazione dipende dalla capacità di produrre beni a minor costo e di più alta qualità, cioè dallo sviluppo economico.

Di fronte a questa complessa ma essenziale problematica, partiti e sindacati parlano molto facendo molta retorica, ma mancano proposte praticabili; sono in campo l’ “Agenda Bersani-Fassina” e quella “Monti-Ichino” ma sono diverse e opposte. La prima insiste sulla intangibilità del contratto nazionale unico, con tutele crescenti, e in cambio offre una maggiore flessibilità a favore delle aziende che si risolve, con tutta evidenza nella “vecchia politica” che protegge i lavoratori già tutelati e presta scarsa attenzione ai precari.

La seconda punta invece sulla contrattazione aziendale con una maggiore attenzione per il lavoro autonomo e parasubordinato, e l’introduzione di ammortamenti sociali come il salario minimo. La proposta di Monti appare credibile: avendo fermato la speculazione ha potuto diminuire il peso degli interessi sui nostri “bond” e con la “spending review” ha diminuito la spesa pubblica ottenendo maggiori margini per diminuire le tasse: la politica oculata dà buoni frutti. La destra non ha formulato proposte per il lavoro: Berlusconi ha indicato la necessità di creare quattro milioni di posti di lavoro; ma sono un auspicio che, come tanti altri, non hanno mai trovato applicazione da parte dei suoi governi

Anche Confindustria e CGIL hanno presentato “agende” dettagliate di politica industriale finalizzate alla crescita, ma non risulta chiaro con quali risorse la ripresa deve essere finanziata. Per rilanciare l’economia sono necessari 150-180 miliardi in tre anni (non proprio una bazzecola). Dove trovarli? Confindustria punta al taglio del costo del lavoro, con la soppressione dell’IRAP e l’aumento dell’IVA; CGIL sull’assunzione di centottantamila unità lavorative e, pertanto, sull’aumento della spesa da affrontare con una imposta patrimoniale sulle grandi ricchezze (che il fisco non riesce ad individuare).

Come si vede c’è una reviviscenza delle teorie keynesiane del “deficit-spending” e dell’intervento dello Stato ma, per la verità, il più noto economista inglese tra le due guerre mondiali prevedeva che lo Stato dovesse anticipare i finanziamenti in tempo di crisi da rimborsare però in epoca successiva quando la ripresa si era verificata. Ciò non è oggi più possibile perché tutti gli Stati sono pesantemente indebitati e non hanno possibilità di trovare ulteriori acquirenti dei loro titoli di credito; in particolare l’Italia, con il mostruoso debito di oltre duemila miliardi di euro, è sempre a rischio di “default”.

Sarà molto difficile, con visioni così divergenti, trovare un punto di equilibrio, ma una cosa è certa: la “società fordista”, del lavoro per tutti, non c’è più; l’Europa non ha più il primato della produzione industriale e il mondo, saccheggiato delle sue risorse naturali irriproducibili, è a rischio di collasso ecologico. Una fase storica, quella dell’illusione dello sviluppo illimitato, è finita e il futuro dovrà essere caratterizzato da nuovi stili di vita più austeri che riescano a conciliare il necessario rigore con una auspicabile equità sociale.

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