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Attualità

GIORNALISTI PIÙ O MENO ORDINATI

MANIGLIO BOTTI - 10/05/2013

L’Ordine dei giornalisti, nelle ultime settimane, è tornato a essere un tema caldo: la proposta della sua abolizione, insieme ad altre ovviamente, è stata fatta da alcuni esponenti del M5S e ne ha parlato in termini non del tutto abrogativi, ma doverosamente dubbiosi, anche Milena Gabanelli, giornalista eccellente, in una recente intervista pubblicata su Sette, il settimanale del Corriere della Sera.

È evidente che l’Ordine dei giornalisti, con tutto quel che succede, e che viene ogni giorno reso noto proprio dai giornalisti, non è e non può essere il problema dei problemi. Ce ne sono altri, molti altri. Ma coloro che all’interno del Movimento 5 Stelle lo hanno contestato con rinnovata furia iconoclasta, è parso di capire, forse lo considerano ancora una consorteria, una specie di setta di furbi privilegiati che per lo più viaggiano gratis su treni e aerei e che entrano da portoghesi nei cinema e negli stadi. Non è così, naturalmente.

Piuttosto che pensare alla sua abolizione bisognerebbe pensare a come sarebbe la situazione se l’Ordine dei giornalisti non esistesse. E allora si intuisce che il problema non è rappresentato dall’esistenza o no dell’Ordine ma dall’accesso alla professione, dall’essere o no “giornalista”.

In breve, oggi come ieri – e come sempre – si è giornalisti se si trova un giornale (o chi per esso) disposto ad assumere e a pagare la persona che scrive o parla o filma o fotografa o, in qualche modo, comunica. Se dunque l’Ordine non esistesse l’anarchia sarebbe completa e soggetta, ancora di più di quanto accade, all’uzzolo degli editori e dei proprietari di giornali, dei capi e degli altri giornalisti, e quindi ancora di più sottomessa di quanto lo è tuttora alle amicizia, alle lobby e ai partiti.

Se l’Ordine dei giornalisti necessita di un restyling esso dovrebbe avvenire proprio su questo aspetto dell’accesso alla professione, che è il più delicato e complicato. E poi ce ne sono altri, che sono la diversità di ruoli nella professione giornalistica. Le differenze tra un cronista di un giornale quotidiano o di una Tv, magari di provincia, e un addetto stampa o un addetto alle pubbliche relazioni sono forti. In questo ambito l’Ordine negli ultimi anni ha cominciato a muoversi, come per esempio con l’istituzione di scuole, ma forse potrebbe fare di più.

In quanto agli elenchi dell’Ordine, e a una loro eventuale iscrizione da parte degli aspiranti, oggi ne esistono – riassumiamo – due, quello dei pubblicisti e quello dei professionisti. Il primo accoglie coloro che non svolgono la professione giornalistica come prevalente, il secondo invece è un elenco di soggetti che traggono esclusivamente gli emolumenti per la loro esistenza dal lavoro giornalistico. La differenza non è marcatissima e l’intreccio s’è andato annodando negli anni. Ora l’attribuzione della qualifica di pubblicista o di giornalista professionista, sancita dall’Ordine (dagli Ordini regionali) non è altro che una certificazione ufficiale – soprattutto nel caso dei pubblicisti – dello stato di cui si diceva sopra: l’avere trovato un giornale o chi per esso che paga per pubblicare. Nel caso dei giornalisti professionisti, da quasi mezzo secolo, ci si deve invece sottoporre a un esame di idoneità professionale consistente in una prova scritta e, se superata la prima, in un’altra orale, dove gli esaminatori sono magistrati e giornalisti professionisti.

Non è un esame-capestro, e nemmeno una prova semplicissima, e perciò inutile. La bravissima giornalista Milena Gabanelli – leggiamo su Sette – non ha superato l’esame orale per non avere risposto a sette domande su dieci e per non avere saputo dire che cos’è (che cos’era) il Coreco. È in buona compagnia, la signora Gabanelli. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista.

Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami che possono attribuire patenti di eccellenza (anche se però in qualche modo obbligano i candidati a studiare un po’ le cose di cui poi si dovranno occupare). E a un lettore poco importa sapere se chi scrive l’ha superato o no. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

L’esperienza è la qualità imprescindibile che fa anche il buon medico, il valente ingegnere, l’abile avvocato. Un amico, anni fa, non si faceva visitare da un medico che non avesse fatto la guerra, anche da studente. Meglio se aveva fatto la ritirata di Russia.

Ma qui – forse – un esamino, dopo qualche anno, è davvero necessario.

L’altro aspetto (controverso) dell’Ordine è la sua prerogativa di controllore deontologico e di infliggere sanzioni nei casi di mancanze. Sta bene. Tuttavia anche in questo caso la storia è più complessa. L’Ordine, per esempio, espelle i personaggi che si arruolano nei servizi segreti (vedi il caso di Renato Farina alias agente Betulla). Ma nulla decide nei riguardi di colleghi i quali non sempre apertamente schierati, e quindi all’insaputa dei lettori, sono militanti di partiti e di fazioni. Mancanze professionali (come quella di essere condannati, anche se in primo grado, per gravi reati) possono venire sanzionate. Quasi niente – a meno che la violazione non sia palese – è previsto nei confronti di coloro che fanno interviste stupide, inutili e offensive; perché la notizia, che è cosa astratta, è sacra, mentre la persona che sta davanti al giornalista non lo è affatto o lo è di meno.

Ecco, in queste circostanze l’Ordine è necessario, dovrebbe intervenire di più e meglio e, nel caso, potrebbe essere riformato. Insomma, andrebbe salvato negli aspetti positivi. La sua abrogazione – è un’opinione personale – farebbe più danni di quanti ne fa la sua esistenza.

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