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Apologie Paradossali

NELL’ATTESA D’UNA METAMORFOSI OVIDIANA

COSTANTE PORTATADINO - 10/05/2013

Non ne ha bisogno, ha già provveduto da solo, anzitempo, con ironia e gusto del paradosso che non saprei eguagliare. “Tranne delle guerre puniche, mi hanno accusato di tutto” e “Nell’aldilà risponderò di molte cose, ma non di Pecorelli e della mafia”.

Se proprio io volessi confutare le raffinate insinuazioni degli opinionisti non mi basterebbe una vita e non sarei creduto ugualmente. La massa informe del rancore sparato sul web non ha più valore dei fischi negli stadi al minuto di silenzio. Pietà l’è morta e con essa l’intelligenza, rimane il “m’incazzo, dunque sono.”

Merita piuttosto un pensiero il suo funerale “privato”. Tutti i funerali, specialmente quelli religiosi, sono per natura e dovrebbero restare “privati”. Privato nel senso di personale, familiare o amicale, di quel rapporto unico col destino che è fatto solo d’amore, di dolore e di speranza, cui si partecipa, non si assiste da spettatori. La cerimonia “pubblica” può pure esserci e caricarsi di significato, ma è altra cosa.

Confesso che ho disertato i funerali di Stato, anche quando ne avrei avuto titolo, invece ho vissuto con sincera commozione quelli di Giulio Andreotti. La chiesa della sua parrocchia, non grande, numerosi i sacerdoti, tutti amici personali, nessun eccesso nelle cerimonie, l’omelia del parroco, nessun panegirico, organo e canti appropriati, un apparato sobrio, persino modesto. Due corazzieri a portare la corona del presidente, un solo labaro, quello della Roma. I presenti hanno pregato compostamente.

Ripenso ad altri funerali di politici, Moro, Togliatti…

Non ho immagini di quello di De Gasperi, ma ricordo la commozione di mia madre, che non mancò di farmene capire il significato, pur bambino che ero.

Il funerale di Moro fu un momento di unità di tutto il Paese, fu come ripreso e ripetuto in ogni comune, quartiere o parrocchia. Ma il dolore della famiglia e lo sgomento del popolo restarono sentimenti diversi, persino divergenti. Gli si intitolarono vie, piazze, edifici pubblici e scuole. Una breve stagione, tutta politica, presto esposta al vento delle polemiche, della attribuzione di colpe e della evocazione di misteri.

Il funerale di Togliatti fu un tentativo di apoteosi. Apoteosi nel senso letterale e storico: la trasformazione in dio dell’imperatore defunto. Ovviamente a beneficio del successore, tanto che se, al contrario, prevalevano i contrasti, per il defunto era pronta la damnatio memoriae, la cancellazione persino dell’esistenza precedente.

A Togliatti, Pasolini dedicò “Uccellacci e Uccellini”, al tema del trapasso, quello politico della fine del PCI-Resistenza contrappuntato da scene di sfondo ispirate o tratte dai reali funerali di Togliatti. Ancor più simbolico è il quadro di Guttuso “I funerali di Togliatti”. Composto nel 1972, rappresenta, con la forza epica propria del pittore siciliano, la folla dei dirigenti, degli intellettuali e delle icone storiche del comunismo (cinque volti di Lenin!) attorno al feretro, tra un tripudio di bandiere rosse. E in grande evidenza, con voluto anacronismo, Enrico Berlinguer, che nel momento reale non aveva ancora quel ruolo di rilievo nel partito. La rivoluzione, non ancora arrivata in terra, avveniva nel cielo dell’ideologia, nella rappresentazione corale del partito-intellettuale organico come interprete terreno di un valore sovrastorico. Una specie di “risurrezione” o di metamorfosi ovidiana in cui il dio-mortale rinasce nel giovane successore. Continuità e cambiamento, quindi apertura alla novità, trapasso non del singolo ma del mondo intero. È verissimo, ogni piccolo cambiamento cambia il Tutto. O rivela che il Tutto è cambiamento?

Tutto è cambiato davvero, in quarant’anni. Quei volti ideali sono oggi irriconoscibili. Quel progetto storico-politico è scomparso insieme al suo antagonista la Democrazia Cristiana di cui Andreotti è stato l’ultimo interprete.

Che cosa suggerisce, per contrasto, la debeatificazione solitaria del “Divo Giulio”?

In primo luogo che la dimensione personale, la libertà, l’azione, il destino del singolo, chiunque sia, porta in sé un valore insuperabile, un nesso di verità con la storia che si gioca secondo le categorie della buona intenzione e del servizio al bene e non secondo quelle del successo e del potere. E questa, credetemi, è stata la reale dimensione di Giulio Andreotti, come uomo e come politico.

Molto secondariamente, ma lo dico per ridimensionare, soddisfacendola, la curiosità di molti, quel che di importante Andreotti si porta nella tomba non sono i “segreti della prima repubblica”. Si chiude con lui, simbolicamente, la stagione italiana della tentata coincidenza tra fede ed impegno politico dei cattolici, dopo vent’anni di agonia, da quel fatale aprile del 1992, quando la bomba di Capaci, insieme con Falcone uccise il suo progetto di conseguire la presidenza della Repubblica per garantire la continuità della politica di collaborazione tra i partiti artefici della costituzione.

Indietro non si torna, la “terza repubblica” non sarà la riedizione della prima, Letta e i suoi ministri, nati democristiani, non lo sono più da un pezzo e non lo ridiventeranno. Mi piacerebbe solo che dallo spirito di Andreotti, per metamorfosi ovidiana, rinasca il fiore di un pari impegno in politica al servizio del bene comune, fertilizzato da quella capacità di dialogo e di comprensione delle ragioni altrui che è stata la sua dote umana e politica più alta.

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