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Universitas

LA MALATTIA CHE CI FA CRESCERE

SERGIO BALBI - 17/05/2013

Molte cose possiamo dire sullo stato di malattia; la prima, la più detta, è che finché c’è la salute è meglio non parlarne affatto. Una forma di scaramanzia per non dirigere gli strali dell’avversa fortuna su chi invece pare crogiolarsi nel suo pensiero e alla fine “si ammala per davvero”. Tra le molte sfaccettature e accenti che tale questione pone alla nostra riflessione, utilizzo la seguente, per cominciare; la malattia pone la nostra esistenza in una nuova condizione, diventa parte della nostra vita e della nostra storia ma in modo repentino, ben lontano dai ritmi del crescere e dell’invecchiare fisiologico. Visto in questo modo lo stato di malattia non si riduce a una parentesi da dimenticare il più rapidamente possibile, ma entra nel processo di cambiamento che costituisce tutti i giorni, il nostro vivere, il lavoro per continuare, all’interno di questo a riconoscere la nostra identità personale. Un processo quindi dove si integrano questioni legate al “chi siamo” e al fluire del tempo non solo nei termini di “quando finirà questo dolore?” oppure “quanto tempo mi resta?”, ma nella percezione corporea della durata e del valore ( vorrei dire del “quanto pesa”) ogni minuto passato su questa terra.

E credere che questa considerazione venga vissuta solo nei termini del rimpianto per il tempo passato è riduttivo; voglio infatti dire che lo stato di malattia ci trasporta in una condizione dove le passioni, il nostro dare gerarchia alle cose, cedono il passo a una situazione di “castità” (non trovo altre parole per essere più esplicito) in cui cresce, a tutto tondo, la questione della nostra effettiva realtà, sia nel senso materiale dell’esserci sia nel senso del tempo appunto, come spazio che è nostro perché è vissuto, perché ci vede presenti su questa terra; siamo troppo presi ad affannarci dietro alla memoria che lasceremo ai posteri per capire quotidianamente fino in fondo quanto abbiamo da fare per costruire il peso delle nostre decisioni e della nostra identità. La malattia quindi come condizione che, nel suo richiamo alla finitudine, ci mette in equilibrio tra quello che siamo e la comunità, il cosmo, in una specie di continua andata e ritorno tra singolarità e molteplice; Valerio Magrelli in un suo bel libro dal titolo “Nel condominio di carne” (Einaudi, 2003), una sorta di diario sul rapporto tra se stesso e la malattia in senso lato, riflette ad esempio sul dolore, banale, provato rompendosi l’unghia di un piede durante una corsa in spiaggia: “Passai una notte insonne, provando a leggere ma senza mai riuscirci, perché l’intera forza del dolore veniva risucchiata da quell’unico punto fluorescente di dolore. Intorno a quel nero pulsare si organizzavano il mio sangue e le mie cartilagini, la mia attenzione, le mie bestemmie, tutto. Al centro dell’Universo stavo solo io, al mio centro, il mio dito, e al suo centro, un puro gorgo di antimateria che lanciava segnali indecifrabili con l’alfabeto di una lingua morta”.

Una condizione particolare quindi quella dello stato di malattia, che ci tiene in sospeso tra il senso dell’esistere e la riduzione di questo a una lotta chiusa in se stessa, prigionieri di una fragilità che nonostante scaramanzie o sciamanesimi si avvera anche solo correndo su una spiaggia in una bella giornata di sole. A sintesi di queste considerazioni possiamo allora convincerci, nello stato di malattia, che noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo; le conseguenze di questo sono importanti per la vita di tutti i giorni, ci portano sulla via della coscienza che la cura, l’attenzione, l’energia che mettiamo per migliorare il nostro modo, il nostro status in mezzo agli altri sono quasi sempre un “avere”. Entrare nell’ottica di “essere” ci libera nelle molteplici pianure del divenire, qualunque sia la nostra condizione di salute e ci mostra il prossimo da un punto di vista differente, con le sue fragilità, con la sua presenza, con il suo tempo, come il nostro.

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