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Apologie Paradossali

APOTEOSI E NON MEMORIA

COSTANTE PORTATADINO - 21/06/2013

24 luglio 1943: si distruggono i simboli del fascismo

La storia, la scrivono i vincitori. Non è giusto, ma di solito è così che va il mondo. Succede, normalmente, nel breve periodo immediatamente successivo al conflitto.  Si comincia con i simboli più appariscenti: statue abbattute, fasci o falce-martelli scalpellati, bandiere bruciate, edifici saccheggiati, archivi, polizieschi e no, dati alle fiamme. Con il tempo i vincitori lavorano più in profondità, dalle enciclopedie ai libri di scuola, dai nomi delle vie e degli edifici pubblici alle opere degli artisti “di regime”, tutto quello che può ricordare il passato, troppo bello per alcuni, troppo brutto per altri, viene cancellato.

L’impero romano applicava la damnatio memoriae piuttosto bene, tanto che di alcuni personaggi non ci è rimasto abbastanza, nemmeno per capire la ragione di tanto accanimento. La pratica opposta consisteva nell’ apotheosis, letteralmente “indiamento”, “trasformazione in dio” del personaggio da  celebrare, di solito l’imperatore defunto venerato dal suo successore, con la significativa eccezione di Adriano che dichiarò l’apoteosi del bell’Antinoo, il suo caro compagno prematuramente scomparso, cui dedicò anche templi importanti.

Oggi l’apoteosi è facilissima per i “divi”, la cancellazione della memoria è molto più difficile, il passato ritorna. Per avvicinarsi anche solo lontanamente agli effetti ottenuti dalla damnatio occorrerebbe uno sforzo largamente maggiore, fare scomparire le tracce è difficilissimo, come ci insegnano i casi Mytrokin, Wikileaks,  e tanti altri. La fantasia di un romanziere estremo come Orwell si spinse a immaginare la dittatura del Grande Fratello non solo come la sorveglianza occhiuta del Potere nei confronti dei gesti più intimi di ogni cittadino, ma come capacità del Ministero della Verità di riscrivere la storia, momento dopo momento, cancellando non l’interpretazione dei fatti, ma perfino il fatto stesso da ogni documento del passato.

Come dire: queste cose vanno fatte fino in fondo. Altrimenti è meglio non provarci, si finisce in parodia, come per le decine di Grandi Fratelli, Isole ecc. passati in Tv nei momenti di stanca.

Forse avrebbero dovuto rifletterci prima, i protagonisti della saga varesina: “Mussolini, cittadino onorario”. La prima, ovvia, considerazione è che, per volerla cancellare,  si è richiamata alla memoria una circostanza dimenticata da tutti e decisamente ignorata dalla stragrande maggioranza. Così, insieme alla tesi, si pone immediatamente l’antitesi, senza che i fautori di quest’ultima debbano fare il minimo sforzo per porla. Un regalo immeritato, il contrario della damnatio memoriae, una specie di resurrezione simbolica, come se fosse una cosa importante, di cui si possa tuttora discutere.

Tuttora. Dopo diversi decenni dall’evento. Ma, cari, non potevate accorgervene prima? E quale pubblico beneficio vi spinge oggi a questo gesto? Solo l’occasione di un po’ di pubblicità? E non se ne è fatta di più, gratis, anzi grazie a voi,  il tizio qualunque che ha appiccicato  il cartello “Via Mussolini” a una via cittadina? La mia generazione ricorda una scritta gigantesca “VIA NIXON” su di un muro in centro Varese, che intendeva protestare per la presenza in Italia del presidente degli Stati Uniti (era il tempo del Vietnam) e che un arguto studente, ora brillante avvocato, trasformò nel suo contrario, semplicemente aggiungendo “già via Copelli”.

E per tornare alle usanze dell’impero romano, mi sovviene che il professore di latino ci fece conoscere un opuscolo satirico del tempo di Nerone: Apocolocyntosis divi Claudii (letteralmente: trasformazione in zucca del divino Claudio, calco parodistico della trasformazione in dio del beneamato imperatore, o, più volgarmente e più realisticamente: inzuccamento, e qui mi astengo da ulteriori spiegazioni). Mi chiedo in conclusione se l’esito delle guerre parolaie non sia inevitabilmente il ridicolo.

Insomma, volevo metterla sul ridere, poi mi capita sott’occhio l’articolo di Paolo Mieli sul Corsera di martedì 11 giugno dedicato alla convenienza della memoria o dell’oblio dopo i grandi scontri politici o (addirittura) le guerre civili, portando ad esempio precedenti illustri, come il “patto dell’oblio” dopo il ritorno della democrazia ad Atene nel 403 a.C. o l’editto di Nantes del 1598:  se si scomoda una tale penna con tali precedenti, allora è una cosa seria!

Non mi basta quindi concludere con un benevolo incoraggiamento ad ambedue le parti in causa a continuare a dire la loro, considerando che possono così aiutare i giornali a combattere la crisi di vendite e i frequentatori dei bar a distogliere il pensiero dal calciomercato e dal grillo-sì grillo-no, ultimo surrogato dell’antipolitica diventata politic-anti.

Occorre una conclusione seria. Mi pare che la dialettica memoria-oblio, anche a fingere che non sottintenda  vendetta-impotenza, anche a voler dimenticare che il famoso patto dell’oblio tra gli Ateniesi finì invece con la strage degli sconfitti, non può mai produrre un risultato definitivo, giacché non si può ricordare se non ciò che si è dimenticato e non si può ricordare se non ci si imbatte in una presenza, così che è sempre l’oggi a selezionare ciò che del passato vale la pena di esaltare o di esecrare (Croce scrisse che ogni storia è contemporanea), tale inconcludente dialettica, dicevo, è superata solo da una parola sconosciuta alla politica, forse persino alla filosofia, certamente alla retorica di piazza: perdono.

Anche se si perdona la persona, non si dimentica e non si cancella la colpa, non si vanifica il giudizio di valore, ci si rifiuta però di caricare simbolicamente la parte avversa di tutto il male del mondo, ci si rifiuta di sentirsi autorizzati a ogni estrema atrocità contro il nemico, ci si rifiuta glorificare il terrorismo suicida, ci si può perfino rifiutare di partecipare alla soppressione simbolica del nemico che vorremmo compiere con la cancellazione dei suoi simboli.

Non sarà un angelo sterminatore a salvarci dal male, tanto meno dal ridicolo.

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