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Cultura

SAM PECKINPAH O DELLA MALINCONIA

MANIGLIO BOTTI - 25/11/2011

 

Sam Peckinpah

Il ripetuto passaggio in TV, in questi ultimi giorni, ancorché in ore antelucane e da insonnia, del film “Voglio la testa di Garcìa” (“Bring me the head of Alfredo Garcia”, 1974) ha riproposto alla nostra attenzione il valore di un regista americano, scomparso ormai da ventisette anni, Sam Peckinpah.

Quella della testa di Garcìa, tagliata dal cadavere già sepolto da qualche settimana, riposta in un sacchetto dal malcapitato e spiantato pianista Benny, rinfrescata con pezzetti di ghiaccio e trasportata in giro per il Messico su una scassatissima auto, è una storia tanto macabra quanto straordinaria, al punto che Sam Peckinpah ne delinea un malinconico itinerario tra la vita e la morte. Alla fine lo stesso Benny, che aveva intrapreso l’impresa al solo scopo di trarne un utile che potesse cavarlo dagli impicci, riesce – non felicemente com’è facile intuire – a dare risposte ai perché della propria esistenza, dall’amore povero e tragico con una donna al perseguimento di una vaga giustizia su questa terra. C’è di più – ma forse è una sensazione personale – Peckinpah ci offre anche un quadro d’epoca, quello degli inizi degli anni Settanta. Il film è considerato il capostipite dei cosiddetti film “pulp”, dove spesso il sangue, l’ironia, il gioco si mescolano senza nessuna ragione, com’è accaduto negli anni Novanta (una prima lezione per un autore attento quale potrebbe essere Quentin Tarantino). Qui si tratteggiano invece caratteri unici, particolari, per esempio il tenace desiderio – anche se non la convinzione – di raggiungere un obiettivo, e dunque la malinconia, lo spleen che derivano infine dall’inevitabile fallimento.

Sono state queste, con ogni evidenza, le cifre stilistiche e artistiche, anche generazionali, di Sam Peckinpah che si vedono raggiunte soprattutto nel suo film “Il mucchio selvaggio” (“The wild bunch”, 1969), western mitico e crepuscolare destinato a tracciare uno spartiacque nella storia del cinema. Si pensi alla differenza – abissale – di due modi di descrivere i personaggi del western: quello all’italiana, barocco, fumettistico e di pura fantasia di Sergio Leone (un regista che, pure, Peckinpah ammirava divertito) e quello pieni di verità e, appunto, di tragica malinconia dello stesso Sam Peckinpah.

David Samuel Peckinpah era nato il 21 febbraio 1925 a Fresno in California. Come il suo amico attore Warren Oates (il Benny di “Voglio la testa di Garcìa”, e il Lyle Gorch – uno dei componenti del gruppo – del “Mucchio selvaggio”) aveva fatto il servizio militare nei marines; benché di famiglia di buona cultura e della medio/alta borghesia americana (suo padre e suo fratello erano entrambi giudici della Corte suprema) rifuggiva dall’intellettualismo: cioè considerava meritevole solo chi alle idee faceva corrispondere i fatti, l’azione. Era americano a tutto tondo e fiero di esserlo, vantando origini tra gli indiani Piutes.

Come autore, prima di sfondare (ma sfondò mai davvero?) nel cinema, proveniva dalla televisione. Ma ecco che cosa pensava Peckinpah – quarant’anni fa! – del suo Paese, della TV e del cinema in un collage di interviste e di dichiarazioni che il critico italiano Valerio Caprara raccolse in una monografia dedicata al regista: “Questo paese è pubblicità, è lavaggio del cervello… È un continuo spingere prodotti e persone senza fare alcuna distinzione tra i due. Siamo di nuovo nell’era del buio… Uno dei grandi vantaggi d’andare al cinema o teatro è quello di rendersi attivo, uscire di casa, comprare i biglietti, partecipare a un’esperienza insieme a tante altre persone. L’ottanta per cento della gente che guarda la televisione, invece, la vede in gruppi di tre persone o meno, e uno di loro è mezzo scimunito. Il più della gente che ritorna a casa la sera, dopo il lavoro, beve un paio di aperitivi prima di cena e si piazza nel soggiorno-morte. Il modo in cui la nostra società si evolve è stato studiato molto attentamente, non è accidentale. Siamo tutti programmati e questo mi prostra terribilmente”.

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