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Economia

L’ETERNA QUESTIONE FISCALE

GIANFRANCO FABI - 26/07/2013

Che in Italia la pressione fiscale sia troppo alta è un dato drammaticamente vero. Negli ultimi anni, nonostante un lungo periodo di stagnazione prima e di crisi poi, le tasse sono sempre aumentate e hanno ormai raggiunto i livelli dei paesi nordici, dove peraltro i servizi che lo Stato fornisce ai cittadini e alle imprese sono incomparabilmente migliori di quelli italiani.

Non accenna a fermarsi infatti una continua rincorsa tra le spese dello Stato e le entrate fiscali che finora ha sempre visto la vittoria del partito della spesa. Nei dodici anni fra il 2001 e il 2012 le uscite del bilancio dello Stato sono passate da 536 a 805 miliardi, con un aumento del 50,1 per cento, un aumento nominale che tuttavia in termini reali, cioè tenendo conto dell’inflazione, diventa del 15,9 per cento. È stata una crescita che peraltro ha avuto un effetto molto scarso sull’economia perché ha riguardato esclusivamente la spesa corrente, salita da 485 a 759 miliardi annui, mostrando un incremento nominale del 56,5 per cento e reale del 20,8 per cento. Sono rimasti pressoché al palo gli investimenti, cioè le uscite per la realizzazione di nuove opere pubbliche e quindi per migliorare le condizioni operative delle famiglie e delle imprese.

I tagli alle spese sono stati inversamente proporzionali alle parole spese: se ne è parlato molto e si è fatto molto poco. Mentre sul fronte delle entrate, cioè delle tasse, molto più silenziosamente la pressione fiscale in Italia ha superato quota 45%, salendo negli ultimi tre anni di tre punti percentuali. Ma se si approfondisce questa realtà e questi dati, e si tiene contro che ci sono almeno un 20% di persone e imprese che evadono o eludono le tasse, si ottiene allora una pressione fiscale reale vicina al 55% contro una media europea di poco superiore al 40%.

E’ questo uno dei tanti “spread” che penalizzano le realtà italiana, un differenziale tanto più pesante per le imprese perché si accompagna a due fenomeni particolarmente rilevanti: da una parte la lunga serie di oneri fiscali e contributivi che impongono dichiarazioni e denunce a scadenza ravvicinata, dall’altra parte la ricchezza di paradossi di cui sono ricche le regole fiscali.

Gli esempi possono essere molti. Quello italiano è probabilmente l’unico fisco al mondo che impone una tassa sulla tassa: avviene per i carburanti così come per le forniture di elettricità e gas dove prima si impongono le accise e sull’insieme si calcola e si aggiunge l’IVA. Un altro record è quello degli acconti per i quali vengono violate anche le regole del vocabolario: per acconto si dovrebbe intendere il pagamento di una parte della tassazione, ma nessuno è riuscito a spiegare come sia possibile un acconto del 101% come quello deciso per quest’anno dal Governo per l’imposta sui redditi delle imprese. Un ulteriore esempio è quello dell’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive, un’imposta che contro ogni logica sociale, penalizza le imprese che hanno il maggior numero di occupati.

Sul tema fiscale peraltro la realtà italiana è fatta più di eccezioni che di regole oltre naturalmente a una lunga catena di condoni e di amnistie fiscali (scudi sui capitali esportati illegalmente compresi) che hanno fatto da contrappunto alla lunga battaglia del fisco contro l’evasione.

Le norme variano continuamente mettendo a dura prova commercialisti ed esperti contabili. Un vero e proprio labirinto aggravato dal fatto che in moltissimi casi le più recenti leggi fiscali varate contengono una frase ormai rituale: “in deroga alla legge 212 del 2.000″. Sì, perché ci sarebbe una legge pomposamente chiamata “statuto del contribuente” che obbligherebbe il Parlamento ad approvare leggi rispettando i principi di garanzia, trasparenza e imparzialità. Quanto questo statuto sia rispettato lo dimostra proprio l’esistenza di quelle deroghe che lo Stato concede a se stesso.

Uno dei problemi più rilevanti è quindi quello dell’incertezza delle norme, un’incertezza dovuta non solo ai continui aggiustamenti, ma anche alle interpretazioni diverse che possono derivare da una stessa legge. Nasce così un contenzioso sui temi fiscali che risente anch’esso della più generale inefficienza del sistema giudiziario italiano. In media per un ricorso di fronte all’Amministrazione tributaria ci vogliono 823 giorni (più di due anni!), altri 617 sono necessari per un giudizio di secondo grado a cui se ne aggiungono ben 1521 per i ricorsi in Cassazione. In tutto otto anni con alla fine l’Amministrazione finanziaria che vince nel 60% dei casi: una percentuale che tuttavia dimostra che quattro imprese su dieci devono aspettare un’eternità per avere una sentenza favorevole e magari la restituzione delle somme ingiustamente versate.

Di fronte a questo sistema esoso, complesso e molto simile a un labirinto vi è l’eterno problema, già accennato, dell’evasione fiscale. Il valore esatto di quanto riesca a sfuggire alle maglie del fisco è impossibile da stabilire: le stime dei centri studi più accreditati vanno comunque dal 15 al 25% del PIL di imponibile “sommerso” a cui corrisponderebbero da 120 a 200 miliardi di euro di imposte che sfuggono al fisco.

Le armi che il fisco ha messo in campo per combattere l’evasione fiscale sono state sempre più ampie ed incisive: si è passati dal redditometro allo spesometro, dagli studi di settore alla possibilità di controllare i conti bancari. Non si è mai messa in atto una strategia che avrebbe sicuramente risultati migliori: quella di ridurre le imposte rendendo nello stesso tempo più facile pagarle. Si può sperare che valga la regola: non è mai troppo tardi.

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