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Apologie Paradossali

DON SANDRO, PRETE NON-CLERICALE

COSTANTE PORTATADINO - 18/10/2013

Non un’apologia, tanto meno paradossale, ma un elogio incondizionato per don Sandro Dell’Era, che la parrocchia di Besozzo ricorderà domenica 20 ottobre prossimo con varie cerimonie culminanti con un incontro di testimonianze di amici antichi e più recenti, alle ore 15 al teatro Duse di Besozzo. Nemmeno voglio anticipare qui il mio affezionato ricordo per colui che è stato uno dei miei primi educatori e, a dispetto della differenza di età, un compagno nel viaggio della fede.

Vorrei prendere spunto da un tratto, secondo me importante della sua figura di prete, per rientrare nel solco delle apologie paradossali.

Don Sandro è strato un prete devoto, affezionato a Gesù Cristo e alla Chiesa, obbediente ai superiori, in particolare al Vescovo, ma per nulla “clericale”. Prima, o meglio nello stesso tempo, di essere prete era un uomo, un uomo libero. Libero da pregiudizi, libero da progetti di vantaggi o anche solo di riconoscimenti personali. Libero dall’attesa di qualsivoglia risultato dalla sua stessa azione pastorale, quindi aperto ad incontrare anche in questo, personalità diverse dalla sua, libero di farsi affascinare da un mons. Manfredini o da un don Giussani, riconoscendone il carisma e disponendosi a seguirli, con passione e semplicità, senza la minima gelosia del proprio ruolo o dei risultati della propria azione pastorale.

Ma che cosa dobbiamo intendere per “clericale”?

Se volessi fare un elenco completo degli errori morali, teologici o semplicemente di buon gusto che potrebbero comporre l’identikit del comune clericale, occuperei mezza pagina e darei l’impressione di iscrivermi al partito avverso, uguale e contrario, degli anticlericali, che invece parimenti aborro. Ma forse perfino un poco meno, in quanto hanno l’attenuante della provocazione.

Mi limito a centrare l’aspetto dominante: la presunzione che l’aver ragione della propria parte nasca dalla forza di una condizione superiore, indiscutibile e definitiva, fondata sul possesso di uno status conseguito una volta per tutte, in virtù di una dottrina, o di una appartenenza ad un gruppo egemone, o di una rivendicata moralità o di una ineccepibile coerenza. Ma in forza di ciò, una ancor più imbarazzante disponibilità a sottacere le imperfezioni proprie o del gruppo di riferimento, magari per non recare scandalo alla propria causa. In termini evangelici si direbbe un fariseo, ma passando dal contesto ebraico a quello cristiano ci troviamo di fronte ad un’aggravante sostanziale: il nuovo punto di riferimento non è più l’osservanza della legge, ma l’incontro con Gesù Cristo, fonte di misericordia e di perdono.

Se vogliamo guardare con più benevolenza alla vita degli uomini di chiesa degli anni prima del concilio, ci limiteremo a notare che per la maggior parte badavano a restare nel solco della tradizione, sia come pensiero sia come comportamenti: un clericalismo larvato, una autodifesa dalle critiche interne. Il rischio era un concetto nemmeno immaginabile.

Don Sandro invece, certamente stimolato dall’incontro con don Giussani, mediato dall’entusiasmo di alcuni giovani, sia varesini sia milanesi, che poco a poco lo coinvolsero più profondamente, non solo fece crescere una nuova generazione di cristiani nelle scuole superiori e nell’università, ma infranse veri e propri tabù, facendo accettare ai preti varesini, al prevosto di S. Vittore come ai parroci della periferia, il fatto che la presenza nella scuola passasse da un luogo specifico e non dai gruppi di azione cattolica delle singole parrocchie e, cosa veramente inaudita (per quei tempi!) che le attività fossero svolte insieme da maschi e femmine, sotto l’innovativo titolo di “coeducazione”.

Non senza preoccupazione dei benpensanti, anche le vacanze comunitarie superarono la barriera della separazione dei sessi e divennero “miste” dai primi anni ’60: don Sandro, naturalmente si affannava a spiegare ai monsignori e ai reverendi e a qualche madre ansiosa che i ragazzi alloggiavano “in due ali ben separate” (Pia fraus, un ultimo residuo di clericalismo?).

Il rinnovamento dei modi di pensare e di rapportarsi nella Chiesa, durante e dopo il concilio fu assai rapido e confermò chi come don Sandro ne era stato antesignano, almeno a Varese. Il suggello fu la nomina come prevosto di monsignor Manfredini, la cui indiscutibile autorevolezza cambiò decisamente il clima religioso di tutta la città. Da lì a poco sarebbe cominciata una nuova avventura per don Sandro, quella di prevosto di san Pietro in Sala a Milano, dove in breve tempo dovette confrontarsi con una diversa forma di clericalismo, quella del clero progressista, che pretendeva di dedurre ogni comportamento, religioso e civile, da una teologia ideologica e politica totalizzante. Furono anni di sofferenza per don Sandro, ferito anche dall’assassinio dell’amato parrocchiano Luigi Calabresi, il commissario che aveva svolto le indagini sull’attentato di piazza Fontana, durante le quali era avvenuto il “caso Pinelli”.

Ma questa, come quella degli anni sicuramente più sereni e benefici di Besozzo, è una storia che altri dovranno raccontare.

Oggi, quel clericalismo “vecchio” non è più di moda, anzi è totalmente scomparso, ma sembra precedere di poco la scomparsa, almeno virtuale del clero stesso. Ma sopravvive una forma tenue di clericalismo, che sicuramente a don Sandro sarebbe dispiaciuta ancor più della prima: quella di chi si accontenta della routine delle feste comandate, delle iniziative consolidate, della calante partecipazione ai sacramenti. La figura di papa Francesco, un papa non-clericale, che non si accontenta di custodire le pecorelle raccolte nell’ovile (che ormai sono molte meno delle novantanove su cento) ma va in cerca delle moltissime smarrite, sarebbe certo piaciuta a don Sandro e gli sarebbe parsa un premio alla sua fedeltà di prete non-clericale.

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